CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE ============================== Premessa -------- Anche in materia di violenza maschile contro le donne la legislazione italiana ha assunto da tempo il paradigma securitario quale orizzonte di intervento privilegiato non fosse altro che per giustificare il ricorso alla decretazione d'urgenza e la retorica emergenzialista che oramai accompagna sistematicamente non solo le novelle che il legislatore sempre più frequentemente introduce in questo ambito, ma anche più ampiamente il corredo di politiche che fa da cornice al sistema degli interventi in materia di contrasto e prevenzione della violenza nonché protezione delle vittime. È indubbio che in questi anni la "issue" della violenza contro le donne sia entrato a pieno titolo nell'agenda politica. Tale circostanza in buona misura attribuibile alla domanda politica che le donne a livello globale avanzano da decenni, è però in realtà anche l'esito di indefettibili obblighi internazionali che ci derivano dalla sottoscrizione di norme di più ampio respiro che riguardano specificamente la lotta alle discriminazioni nei confronti delle donne[^67], ma anche più estesamente il codice internazionale dei diritti umani, e in particolare il diritto alla vita, il diritto a non subire tortura e/o trattamenti inumani, crudeli e degradanti, il diritto alla libertà personale e al rispetto della propria vita privata e familiare, cosi come a quello non essere ridotte in schiavitù e ovviamente ad un giusto processo[^68]. Proprio all\'inquadramento offerto dal diritto internazionale dei diritti umani già nel 1993 con l'adozione della Dichiarazione delle Nazioni Unite sull'eliminazione della violenza contro le donne si deve il riconoscimento della violenza come "*manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne, e che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini*". Tale riconoscimento, nel tempo ripreso estesamente in una pluralità di atti, ha imposto al nostro decisore politico di non limitare l'intervento legislativo in materia di contrasto alla violenza degli uomini contro le donne alla previsione di fatti di reati più o meno severamente sanzionati bensì di operare per rimuovere le condizioni che sono sottese alla violenza ovvero le discriminazioni contro le donne basate sul genere. Ciò ha implicato la messa a punto di un corredo di dispositivi e di *policies* che sono culminate nella previsione all'art. 5 del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province» il quale prevede l\'adozione di un «Piano strategico nazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica», al comma 2, lett. d) stabilisce di «potenziare le forme di assistenza e di sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli attraverso modalità omogenee di rafforzamento della rete dei servizi territoriali, dei centri antiviolenza e dei servizi di assistenza alle donne vittime di violenza» e all\'art. 5-bis tratta delle azioni per i centri antiviolenza e le case rifugio. Tale decreto inaugura perciò una stagione che avrebbe dovuto essere segnata da un impegno in materia di lotta alla violenza certamente caratterizzata da un'attenzione in chiave criminalizzante verso i reati di cui sono vittime le donne accompagnata però dalla previsione di misure e risorse atte da un lato a "liberarle" autenticamente dal flagello della violenza, dall'altro a sostanziare sul piano della retributività le stesse norme penali, poiché è chiaro che un fenomeno sociale di questa portata non lo si può sconfiggere lavorando su quella porzione di situazioni che emerge rispetto ad un sommerso che continua ad alimentarsi proprio sulla maggior esposizione alla vulnerabilità situazionale che molte donne vivono nel nostro contesto sociale segnato dalla persistenza di evidente situazioni discriminatorie. Di fatto sulla scorta di quanto previsto dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119 oggi il "Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023" presentato in Consiglio dei ministri nel novembre 2021, previo parere espresso dalla Conferenza Unificata Stato-Regioni che, in continuità con il precedente 2017-2020 costituisce la cornice di riferimento per il sistema degli interventi in materia di violenza e si articola in 4 assi (Prevenzione, Protezione e sostegno, Perseguire e punire, assistenza e Promozione) in analogia alla Convenzione del Consiglio d\'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica adottata a Istanbul l\'11 maggio 2011di Istanbul e ratificata dall'Italia con legge 27 giugno 2013, n. 77. Il Piano è a sua volta integrato dall'Intesa Stato-Regioni, che modifica la precedente n. 146/CU del 27 novembre 2014, relativa ai requisiti minimi dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio determinando criteri stringenti in merito al livello di specializzazione di tutti i soggetti (siano essi associazioni o enti pubblici e locali) che concretamente erogano i servizi, uniformando a livello nazionale i requisiti minimi per accedere alle risorse finanziarie e valorizzando il "lavoro in rete" svolto dai Centri antiviolenza all'interno di un sistema di risposta alla violenza coordinato a livello territoriale. In realtà i vari interventi legislativi che si sono susseguiti negli ultimi anni, a partire dalla normativa sul "femminicidio" introdotta-significativamente- nel decreto sicurezza omnibus del 2013 (Decreto Legge 14 agosto 2013, n. 93 convertito in Legge 15 ottobre 2013, n. 119), che, ricordiamolo, conteneva anche norme penali in materia di cantieri (Tav), protezione civile ed altro, ci si è prioritariamente (se non esclusivamente) preoccupati di agire in termini di inasprimento delle pene. Siamo giunti, nel 2019, al cosiddetto "Codice Rosso" (Legge 19 luglio 2019, n. 69), dispositivo sostanzialmente caratterizzato dalla previsione di criteri di priorità di intervento e trattazione dei procedimenti in materia di violenza sulle donne, di nuove fattispecie di reato, aggravanti e aggravamenti di pena, integrate da una serie di modifiche in materia di misure cautelari, di prevenzione ed esecuzione pena . [Il tutto stando a quanto previsto nelle norme apparentemente a costo zero]{.underline}: l'art. 21 (clausola di invarianza finanziaria) dispone espressamente che l'attuazione delle norme non deve comportare alcun onere aggiuntivo per la finanza pubblica, e che "Le amministrazioni interessate provvedono ai relativi adempimenti con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente". In sostanza, pene più severe, ed è noto a tutti il fatto che il sistema sanzionatorio comporti dei costi rilevanti in realtà, senza che a queste corrispondano servizi di sostegno per le donne più adeguatamente supportati sul piano economico, anche in considerazione del fatto che, proteggere le donne significa tra le tante cose prevenire reiterazioni delle condotte violente e perciò comunque oneri ulteriori a carico del sistema della giustizia e che in questi anni il numero di vittime che a diverso titolo chiede aiuto ai Centri antiviolenza e alle istituzioni è notevolmente aumentato. I risultati sono assolutamente evidenti. I dati statistici sui reati violenti in Italia attestano "l'invarianza" numerica di quelli commessi contro le donne in ambito domestico-affettivo, a fronte di un calo complessivo dei restanti. Secondo l'ultimo rapporto del Ministero dell'Interno-Dipartimento della Pubblica Sicurezza- gli omicidi volontari, anche nel 2022, confermano la tendenza già rilevata gli anni immediatamente precedenti (309 complessivi, numero che attesta una netta e costante discesa- dagli oltre 600 del 2007, 536 del 2012 e tenendo conto che nel 1990 se ne contavano 3012); il numero degli assassinii con vittime di sesso femminile resta tuttavia invariato (122), anzi leggermente superiore a quello degli anni precedenti, con prevalente collocazione in ambito familiare-affettivo (100 su 122). In altre parole, più di 1/3 degli omicidi volontari commessi in Italia avviene al di fuori di "contesti criminali", nei confronti di donne, prevalentemente in famiglia o comunque ad opera di mariti, fidanzati ed ex partner. Nell'analisi annuale del Ministero dell'Interno viene registrata una diminuzione percentuale di due dei cd. reati spia sulla violenza contro le donne, ovvero lo stalking (- 10,3%) ed i maltrattamenti in famiglia (-3,9%), dato che certamente risente del confronto con le percentuali vertiginose di aumento del 2021 (in periodo "lockdown", che aveva visto aumenti dell'11,8% per il reato di atti persecutori e del 9,3% per quello di maltrattamenti). E' invece aumentato, rispetto al 2021, il numero dei reati di violenza sessuale denunciati. C'è un ulteriore elemento che attesta, se necessario, la particolarità, in negativo, della sottoposizione alla violenza in base al genere: anche i reati commessi in danno dei minori vedono ragazze e bambine come vittime in percentuale maggioritaria per quasi tutte le tipologie considerate. Non solo: le relazioni in materia di applicazione giudiziale delle normative introdotte su "violenza di genere e domestica"[^69] danno atto di un grave deficit di preparazione, in termini sia iniziativa che di concreto supporto in sede giudiziaria nella maggior parte delle Procure e dei Tribunali. Nel rapporto della Commissione Parlamentare di inchiesta leggiamo, quanto ai magistrati inquirenti: "*Su un totale di 2.045 magistrati requirenti, il numero di quelli assegnati a trattare nel 2018 la materia specializzata della violenza di genere e domestica, è pari a 455, ovvero il 22 per cento del totale. Tuttavia, come si evince dai dati, non necessariamente i magistrati specializzati si occupano soltanto di violenza di genere e domestica e, viceversa, non necessariamente detti procedimenti sono sempre assegnati a magistrati specializzati*". Quanto ai CTU (sempre in sede penale): "*Significativi sono i deficit nel loro impiego nello svolgimento delle consulenze psicologiche sui minori e, in primis, il fatto che la nomina non avviene sempre sulla base dell'accertamento di una effettiva specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica. Il 25 per cento delle procure sceglie i CTU sempre e soltanto tra quelli iscritti all'albo dei periti del tribunale, albo che non contiene una sezione o un elenco di esperti specializzati nella materia, né prevede che tale competenza sia verificata in sede di richiesta di iscrizione all'albo stesso*". Ancor peggio il rapporto descrive la situazione in essere nel settore civile: "*Complessivamente, l'analisi ha evidenziato una sostanziale invisibilità della violenza di genere e domestica nei tribunali civili, nei quali la situazione appare più critica e arretrata rispetto a quella emersa nelle procure. Elementi positivi si affiancano a elementi negativi, ma sono questi ultimi, nel complesso, a pesare di più*." "*Nel 95 per cento dei tribunali non vengono quantificati i casi di violenza domestica emersi nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e in quelle sui provvedimenti riguardo ai figli, come pure non sono quantificate quelle in cui il giudice dispone una CTU nella materia". "Il 95 per cento (124 su 130) dei tribunali non è in condizione di indicare in quante cause il giudice abbia disposto una CTU. Solo nel 29 per cento (38 su 130) dei tribunali i giudici civili fanno ricorso a un quesito standard nella nomina del CTU e solo un terzo dei pochi che ne fanno uso lo ha elaborato con il contributo di figure professionali competenti in materia*"[^70] Ci soffermiamo sul tema CTU, perché, come notorio, le decisioni giudiziali in materia di famiglia, ed in particolare di affidamento dei minori, si fondano spesso sui pareri espressi dalle relazioni dei consulenti o dei Servizi incaricati di investigare sulle "capacità genitoriali" dei coniugi separandi/divorziandi. Questi mezzi di prova, che notoriamente quasi sempre sono decisivi sull'esito del procedimento (se non direttamente trascritti in sentenza), scontano un'impostazione "familistica" che troppo spesso prescinde ed allontana il tema della violenza riducendolo frequentemente a normale conflittualità di coppia e cosi occultando la dimensione di potere che invece connota la violenza degli uomini sulle donne. L'assunto di partenza, quello della bigenitorialità, continua ad avere assoluta prevalenza su ogni tipo di diversa esigenza e rappresentazione, violenza domestica inclusa. Così non è raro trovare casi in cui placidamente il CTU (o i Servizi Sociali) affermano la necessità che il padre violento-maltrattante mantenga (o addirittura stabilisca-ristabilisca, ove interrotto da misure cautelari di allontanamento dalla casa familiare e/o divieto di avvicinamento) il rapporto con i figli minori, persino in casi di cd. "violenza assistita". È evidente che tale orientamento sottende la non volontà di assumere il disvalore che connota queste condotte come scriminante rispetto alla relazione con i figli. Peraltro sul piano pratico si traduce nella non interruzione dei rapporti tra la donna maltrattata e l'autore di reato. Si tratta di una condizione, che anche nelle circostanze in cui non si traduca in pericolo per la madre dei figli, è comunque dolorosa e pesante da affrontare e spesso viene vissuta come l'assenza di riconoscimento del torto subito. Non si tratta di casi isolati e sporadici, ma di una prassi purtroppo abbastanza consolidata nei Tribunali civili e minorili di tutto il paese, come attestano recenti studi sul tema. Per tutti, citiamo la recente pubblicazione del testo "Senza madre- storie di figli sottratti dallo Stato", autrici varie, che affronta il tema del distacco forzato dalla figura materna "colpevole" spesso solo di non essere in grado di imporre al figlio o alla figlia la frequentazione di un padre da loro rifiutato. Per un certo periodo, è invalsa persino la teoria della cd. "Sindrome da alienazione genitoriale" (Pas), e della "madre malevola" (MMS) fortunatamente non accolte nel novero delle "patologie scientificamente riconosciute"; ne hanno fatto le spese però moltissime donne (anche vittime di violenza) a cui i figli/le figlie sono stati sottratti, a volte con veri e propri interventi militari, ed affidati per lo più a case-famiglia (ma in alcuni casi persino all'altro genitore o a suoi familiari). Sul punto, la Cassazione è intervenuta negli ultimi anni con provvedimenti significativi, placando il ricorso straripante a dette teorie che ha però purtroppo dilagato e convinto buona parte dei magistrati e delle magistrate per svariati anni (e tuttora residua manifestamente nel retropensiero di molte decisioni in materia di famiglia), quasi come contraltare alla politica di risposta penalistica alla violenza domestica. Non sono mancati casi incredibili, in cui al padre condannato per maltrattamenti in famiglia è stato addirittura affidato il figlio minore, preferendolo alla collocazione presso la madre. Ma, al di là delle decisioni veramente fuori norma, il punto è che il criterio della perfetta bigenitorialità comunque viene generalmente adottato e considerato prevalente nella maggior parte delle CTU, delle relazioni dei Servizi Sociali e conseguentemente nelle sentenze civili in materia di affidamento dei minori, indipendentemente e nonostante la violenza imperante nel nucleo familiare. Il padre è il padre "a prescindere" è il principio con cui si devono purtroppo confrontare le donne in sede giudiziale. Ma è un principio che è necessario superare e ribaltare, laddove non corrisponda ad alcuna esigenza del minore, o peggio, vi contrasti. E su questo punto si gioca un pezzo importante della relazione tra le donne vittime di violenza e l'accesso concreto ai percorsi di giustiziabilità dei diritti umani posti gravemente a pregiudizio in queste circostanze. In questo senso, l'ordinanza 9691/22 della Corte di Cassazione (che ha annullato la revoca della postestà genitoriale a Laura Massaro, ritenuta da CTU e magistrati madre abusante-alienante) ha affermato che "...*che il diritto alla bigenitorialità disciplinato dalle norme codicistiche è, anzitutto, un diritto del minore prima ancora dei genitori, nel senso che esso deve essere necessariamente declinato attraverso criteri e modalità concrete che siano dirette a realizzare in primis il miglior interesse del minore: il diritto del singolo genitore a realizzare e consolidare relazioni e rapporti continuativi e significativi con il figlio minore presuppone il suo perseguimento nel miglior interesse di quest\'ultimo, e assume carattere recessivo se ciò non sia garantito nella fattispecie concreta*". Non si tratta, nel caso, di una vicenda caratterizzata da violenza domestica, ed ovviamente la decisione riafferma e ripercorre la giurisprudenza interna ed europea in materia di diritto del minore ad un equilibrato rapporto con entrambi i genitori, condividendola in toto. Laddove il principio sopra richiamato venga correttamente applicato in procedimenti contenziosi in sede civile in cui la violenza in famiglia è elemento serio e abituale le conseguenze potrebbero e dovrebbero essere ben diverse da quelle a cui le Sezioni Famiglia dei Tribunali ci hanno abituato. In altre parole, il principio della bigenitorialità, in sé corretto ed auspicabile, non può diventare una spada di Damocle tesa sulla testa donne vittime di violenza, costrette ad affrontare percorsi di mediazione o ancor peggio a frequentare in ragione della presenza di figli minori padri-mariti-compagni violenti. Soprattutto, è necessario ragionare e proporre un sistema articolato e non giudicante che riesca a garantire alle donne, nel percorso di fuoriuscita dalla violenza, di non essere condannate a relazionarsi con il marito/compagno violento, in ragione della presenza di figli minori. Un primo passaggio potrebbe essere garantito da un'integrazione alla normativa sulle misure cautelari (allontanamento dalla casa familiare e divieto di avvicinamento, ed, a maggior ragione, in caso di adozione di misure più gravi e restrittive della libertà personale) che autorizzi la donna persona offesa ad esercitare la responsabilità genitoriale sui figli minori indipendentemente dal consenso dell'altro genitore, senza dover ricorrere al procedimento civile per farsi autorizzare all'iscrizione/trasferimento scolastico (problema molto frequente nei casi di donne accolte in protezione che ovviamente hanno necessità di non far conoscere al maltrattante la loro posizione e quella dei figli). Tornando alla risposta penalistica sul tema, come si diceva sopra, il problema più rilevante e sostanziale rimane quello dello squilibrio di potere, che permane, tra donne e uomini e che non sembra essere contrastato in alcun modo in questo momento se si osservano alcune tendenze che la società esprime sia sul piano degli interventi in direzione di un'affermazione più concreta del paradigma dell'eguaglianza, sia sul versante del riconoscimento del disvalore di tutta una serie di condotte abusanti non di rado intrise di razzismo e xenofobia oltre che di marcato sessismo. È infatti sotto questo profilo che il sistema di tutela delle donne dalla violenza resta indubbiamente ed estremamente carente, garantendo (nei limiti dei bilanci assai contenuti di cui possono disporre i centri antiviolenza) al massimo (e non sempre) la risposta emergenziale. Le difficoltà in cui opera chiunque si occupi di violenza nelle relazioni intime sono soprattutto legate alla mancanza di risorse, soprattutto nella parte di intervento che spetta ai Servizi Sociali, che è poi fondamentalmente quella che attiene alla possibilità per le donne di avviare un percorso di autonomia, a partire dalla possibilità alloggiativa indipendente (e, nei casi più importanti, possibilmente distante dal partner violento) per proseguire con la tematica più generale del lavoro e del reddito. E queste difficoltà diventano sempre più significative ed irrisolvibili in conseguenza delle "restrizioni" imposte ai bilanci degli enti locali, le cui risorse diventano sempre più scarse proprio in relazione agli interventi sociali in generale. Non vogliamo neanche pensare a cosa comporterà l'applicazione della cd. "autonomia differenziata". Aggiungiamo che alla ristrettezza degli stanziamenti economici ai Centri Anti Violenza vanno aggiunti gli oneri ulteriori posti a carico delle strutture nel recente "protocollo Stato Regioni" Incentivare l'autonomia ----------------------- Quanto sin qui esposto ha un'incidenza ben più rilevante nei casi in cui la donna che chiede supporto giudiziale e non nel percorso di fuoriuscita dalla violenza domestica sia straniera, e tanto più se proveniente da nucleo familiare composto da stranieri (extra Ue). In ambito giudiziale, ed in particolare sull'azionabilità dei diritti, rinviamo integralmente a un testo recentemente elaborato in collaborazione tra l'Università di Padova- Centro per i Diritti Umani Antonio Papisca e l'Associazione Studi Giuridici per l'Immigrazione, "Donne straniere diritti umani e questioni di genere", liberamente scaricabile e reperibile al link -e, in particolare, per quanto attiene all'azionabilità dei diritti, alla seconda parte del volume. Le difficoltà che si manifestano quotidianamente nell'attività di supporto alle donne vittime di violenza (con maggiore difficoltà se straniere) riguardano ovviamente il tema abitativo e reddituale. Le poche misure di sostegno che sono state sin qui adottate (il cd. "reddito di libertà" di cui al DPCM del 17 dicembre 2020, consistente nell'erogazione di € 400 mensili per un massimo di 12 mensilità) ha ricevuto per il periodo 2020-2022 un finanziamento complessivo di 12 milioni di euro, con il risultato che, nel primo anno di applicazione, ne hanno potuto fruire 600 donne (su un totale di oltre 3200 domande presentate). Per il 2023 lo stanziamento statale contenuto nella legge di bilancio è di 1.850.000 euro (sic!) In ambito lavorativo- di supporto alla ricerca di occupazione- dal 2015 al 2022 l'importo complessivamente erogato da Stato e Regioni è stimato in 157 milioni di euro, di cui 20 milioni per sostegno al reddito ("reddito di libertà" -inclusi i finanziamenti aggiuntivi stanziati dalle Regioni Sardegna, Puglia e Lazio), 124 milioni per il supporto occupazionale (congedi indennizzati, orientamento e tutoraggio, misure inserimento-tirocini, borse lavoro, formazione, incentivi all'assunzione, crediti per autoimprenditorialità), 12 milioni di euro (tra Stato e Regioni) per autonomia abitativa (sussidi per caparre, fitti, utenze). Il che corrisponde, sostanzialmente, ad un sostegno economico calcolato in € 54 al mese per ogni donna assistita dai centri antiviolenza in condizione di non autonomia economica. È un dato estremamente crudo e significativo, che fa comprendere la necessità ineludibile di un cambio di passo. Vien da dire: meno norme penali e più soldi per uscire dalla violenza. Misure cautelari: proposte -------------------------- In attesa del prossimo "inasprimento pene" anticipato nel discorso pubblico come necessario a seguito degli ultimi femminicidi avvenuti prima dell'estate 2023 e più ampiamente degli adattamenti che a breve il legislatore interno dovrà apportare per dare spazio al recepimento dell'attuale dratf di Direttiva[^71] in materia rispetto alla quale il Consiglio ha recentemente avviato i negoziati con il Parlamento europeo, dopo che quest'ultimo ha approvato la relazione senza votazione, in linea con il suo regolamento interno[^72], ci permettiamo qualche appunto sulla normativa esistente e qualche suggerimento-proposta. Le disposizioni in materia di allontanamento dalla casa familiare (art 282 bis c.p.p.) consentono al PM, nel caso che l'esecuzione della misura venga a privare le persone conviventi (NB, la disposizione parla di conviventi, indipendentemente dallo stato di coniugio o meno, e non solo in caso di presenza di figli) dei mezzi di sostentamento, di richiedere l'imposizione di un assegno di mantenimento a carico del maltrattante. È una disposizione importante, come immediatamente comprensibile, per garantire alle vittime di violenza in famiglia l'indispensabile alla sopravvivenza propria e dei figli; statisticamente parlando, però, è una disposizione sottoutilizzata, e che ovviamente importa un carico aggiuntivo di indagini e valutazioni (sulla situazione economica delle parti) che le Procure spesso omettono se non esplicitamente sollecitate. Il suggerimento, sul punto, è quello di fornire, ove possibile, in sede di querela o con istanza ad hoc anche successiva, i dati reddituali che consentano la comparazione. **La proposta** è quella di lavorare ad una modifica dell'art. 282 bis c.p.p. che renda obbligatoria-e non eventuale - l'indagine patrimoniale e la valutazione sulla necessità di stabilire un contributo al mantenimento del nucleo familiare a carico del maltrattante sottoposto alla misura dell'allontanamento dalla casa familiare, anche non contestualmente all'esecuzione della misura (che ovviamente ha carattere di urgenza ed indifferibilità a tutela della vita e della salute delle donne) e che estenda esplicitamente la disposizione in esame alle diverse misure eventualmente adottabili (essendo purtroppo diffusa l'opinione che tale possibilità non sia data, ad esempio, in caso di divieto di avvicinamento ex art 283 ter cpp). Sempre in tema di misure cautelari, va ancora registrata una carenza che può comportare, in relazione alla particolarità delle situazioni delle violenze in famiglia, gravi rischi per le donne: la normativa non prevede espressamente che la p.o. venga notiziata (e conseguentemente che possa intervenire) dell'eventuale richiesta di riesame avverso l'ordinanza cautelare. Spesso, quindi, le donne p.o. non ne vengono affatto notiziate. Ebbene, se al limite si può discutere sulla possibilità dell'intervento della persona offesa (ex art 299 cpp) in sede di riesame, certamente la non conoscibilità della richiesta di riesame e dei provvedimenti e modifiche che eventualmente ne derivino è intuitivamente un rischio a cui una donna vittima di violenza nelle relazioni intime e familiari non può e non deve essere sottoposta. In questo senso è quindi indubbiamente necessaria un'integrazione normativa che imponga espressamente quanto meno la notifica alla p.o. dell'istanza di riesame e della decisione che ne deriva, analogamente a quanto disposto dai commi 3 e 4 bis dell'art. 299 cpp. La previsione di una misura in tal senso appare si essere urgente, in ragione di esigenze autentiche di tutela delle persone offese di reato, ovvero delle donne!!! Aggiungiamo qui, rinviando alla lettura dell'elaborato "sull'azionabilità dei diritti umani delle donne straniere vittime di violenza. Criticità in ambito penale" (pubblicato nel testo "Donne straniere diritti umani questioni di genere" già sopra citato e liberamente scaricabile online), che il tema della traduzione dei provvedimenti- quanto meno per estratto- anche nei casi di persone offese straniere diventa sempre più importante, a fronte dell'incremento della popolazione straniera, e soprattutto in ragione della povertà culturale a cui moltissime donne sono condannate da usanze familiari segreganti/isolanti, che non consentono conoscenza delle procedure, dei propri diritti e spesso anche della lingua italiana. E' anche una questione di democrazia!!! Ed ancora, va ricordato che nel novero delle ipotesi di reato previste dall'art 76 comma 4 ter del DPR 115/02, che consente l'ammissione al patrocinio a spese dello stato indipendentemente dai limiti di reddito per tutta una serie di reati tipicamente commessi in danno delle donne (maltrattamenti, stalking, violenza sessuale, mutilazione sessuale) non è ricompreso, per assurdo, il reato più grave, ovvero il femminicidio, se non in favore degli orfani. In altre parole, la donna che riesca a scampare al tentativo di ucciderla, non rientra tra i soggetti destinatari della disposizione di cui si è detto. Pare evidente la necessità di includere tra i reati previsti dall'art 76 comma 4 ter DPR 115/02 quanto meno il tentato omicidio, ove aggravato ai sensi dell'art 577 n. 1 c.p. (in realtà, in presenza di tale aggravante, il beneficio sarebbe logicamente estensibile anche alle ipotesi di reato meno gravi) I disegni di legge oggi in discussione -------------------------------------- Concludiamo con brevissimi cenni sui disegni di legge oggi in discussione: il disegno di legge governativo (C.1294), quello dei deputati del PD (C. 1245), quello del Mov. 5 Stelle (Ascari e altri C.603), quello targato Italia Viva (Bonetti e altri C. 439). Al di là dei proclami e inasprimenti delle misure "preventive" (in buona sostanza, l'incremento-forse- dell'utilizzo dei braccialetti elettronici e delle sanzioni conseguenti alla loro manomissione e distruzione, e l'introduzione di misure di prevenzione-sorveglianza speciale), e ferma restando la caratteristica di "invarianza finanziaria"= mancato investimento di risorse, l'aspetto che lascia più interdetti della disciplina "innovativa" (tra l'altro comune anche alla proposta dei deputati PD) è l'estensione del procedimento per ammonimento introdotto in relazione allo stalking al campo largo dei cd. "reati spia" della violenza. Davvero questa previsione è di difficile comprensione, per chi si occupa di violenza e ne conosce la ricorrenza delle dinamiche che la connotano sul piano fattuale. Senza entrare specificamente nel merito delle singole disposizioni ancora in discussione, ci pare doveroso sottolineare che l'estensione del procedimento "monitorio" presenta (almeno) due evidenti problematicità: l'una, rappresentata dalla procedibilità indipendentemente dalla volontà/segnalazione/querela della donna (e ciò che questo può comportare in una situazione di convivenza o comunque di relazione in corso, in termini di sicurezza e protezione); l'altra, la realistica possibilità che tale procedura venga utilizzata "in sostituzione" dell'azione giudiziale, stante la natura delle condotte indicate (lesioni, violenza privata, minaccia, stalking, revenge porn, violazione di domicilio, danneggiamento), che sono poi quelle abitualmente presenti nella fenomenologia della violenza contro le donne. I c.d. protocolli dei tribunali in materia di diritto di famiglia ----------------------------------------------------------------- I procedimenti che riguardano la famiglia e le persone , il modo in cui vengono gestiti dai Tribunale ma anche dai Difensori delle parti , il contenuto degli atti processuali , il linguaggio usato ed infine le decisioni prese consentono di comprendere non solo quali siano gli orientamenti giurisprudenziali ma anche quale sia lo "stato" del nostro Paese , come vengano intese le relazioni personali e soprattutto se vi sia una autentica sensibilità ed una efficace attenzione e rispetto alle differenza di genere ed a quelle situazioni in cui vi debba essere tutela per donne vittime di violenza . In tal senso appare utile esaminare i "cd Protocolli" di cui molti Tribunali si sono dotati nel tempo. Va premesso che si deve criticare l'uso dei singoli magistrati di uniformarsi in un automatico a tali protocolli, semplificando ed appiattando le diverse situazioni, tanto da far ritenere che i protocolli stessi rappresentino ben più che una generale linea di indirizzo, e si trasformino nel pretesto per semplificare situazioni molto complesse, imponendo un modello regolamentativo eccessivamente schematico per definire relazioni intime, rapporti personali e condizioni economiche e patrimoniali che richiederebbero maggior tempo e una attenzione più puntale rispetto a quanto viene loro purtroppo dedicato ordinariamente, Tanto premesso il primo dato che emerge è che non tutti i Tribunali italiani hanno deciso di dotarsi di un Protocollo o di linee guida (come hanno deciso di qualificarla taluni) , e che alcuni si limitano a trattare solo alcuni argomenti specifici . Si consideri ad esempio, in via del tutto esemplificativa, che Frosinone , Rieti , Roma , Napoli, Benevento e Chieti si sono dotati di un Protocollo unicamente in relazione alla determinazione del contributo nel mantenimento dei figli e analogamente hanno fatto Pescara e Teramo. Matera ha invece linee guida che riguardano la classificazione delle spese ordinarie e straordinarie e così pure Torino. In Sardegna e nella intera Regione non troviamo riferimento alla adozione di Protocolli , Genova dispone di un suo protocollo che attiene però unicamente alla individuazione delle spese extra. Questa prima disamina , di certo parziale seppure significativa, consente di affermare che l'attenzione primaria viene dedicata alla complessa matassa delle questioni economiche nei rapporti tra le parti . Solo in via di osservazione generale va rilevato come non vi sia differenza nella loro regolamentazione tra procedimenti di separazione e giudizi di scioglimento del vincolo , tra giudizi già definiti ed altri invece da decidere. Se un tempo si poteva forse ritenere che la conflittualità e ancor peggio che una relazione connotata da violenza, riguardassero solo la prima fase, le prime iniziative avanti la autorità Giudiziaria (quindi correlata prevalentemente alla separazione), sappiamo oggi che purtroppo non è più così e che in corso del procedimento non si assiste più ad un acquietamento nelle relazioni ma che al contrario ad una distorsione dei rapporti continuano ad essere, non bilanciati o ancor peggio molesti, violenti o maltrattanti, non definiti neppure dalla conclusione del giudizio, di certo non bonificati. Possiamo allora ipotizzare che a mantenere questa condizione di costante patologia concorra in modo più o meno determinante la procedura ed il modo in cui viene applicata, prima ancora del suo esito? Un procedimento semplice nelle sue scansioni, ma approfondito nelle sue indagini, rapido nelle decisioni e comprensibile per i suoi destinatari, non difficoltoso da illustrare a chi non è tenuto ( come lo sono i difensori ) ad avere competenze specifiche, può certo concorrere a dare sicurezza e serenità personale a chi decide di porre fine alla propria relazione , a rassicurarla anche sotto un profilo personale ed economico e a far comprendere all'autore del comportamento contra jus le possibili conseguenze, con un auspicabile effetto deflattivo. Senza dimenticare che anche sotto un profilo puramente economico patrimoniale, quello per intenderci che interessa tanto i Protocolli, scontiamo la impossibilità di definire in via anticipata i rapporti economici. Viene da pensare che talvolta l'apporre alcuni correttivi , in forma pattizia o anticipatoria alla separazione prima ed al divorzio poi, potrebbe costituire elemento di attenuazione delle dispute economiche[^73] . Ritornando alla lettura dei Protocolli si può di certo affermare, valutando come vi sia una differente declinazione di molti temi e come appaiono diversi gli orientamenti a seconda del contesto sociale , territoriale ed economico che si possa giungere a concrete applicazioni ed indicazioni non solo divergenti ma spesso anche contrastanti tra i differenti Tribunali costituente elemento che supporta il cd forum shopping[^74]. In via esemplificativa di queste diversità si possono citare in via esemplificativa alcuni tra i molti, collocandoli anche temporalmente e valutando prioritariamente quali siano i soggetti che li hanno sottoscritti : oggetto di esame specifico quindi il protocollo del Tribunale di Perugia , Bari, Pordenone , Verona , Ancona , Forli, Firenze , Milano. Emerge immediatamente leggendone i firmatari come non si esca nella maggior parte dei casi da una diade di soggetti (salvo alcune eccezioni ). \*\* Anno 2011 Firenze : il Protocollo viene sottoscritto dal Tribunale , dalla Procura della Repubblica , dal Consiglio dell'ordine degli avvocati , Aiaf Toscana , Camera Minorile , IDIMI, Osservatorio del diritto di famiglia. \*\* Anno 2013 **Ancona** : il Protocollo viene sottoscritto dal Presidente dell'Ordine degli avvocati e dal Presidente del Tribunale . \*\* Anno 2013 **Pordenone** : il Protocollo viene sottoscritto dal Presidente del Tribunale , dal Presidente del Laboratorio Forense , dal Presidente del Consiglio dell'Ordine , dal Direttore generale ASS 6 , dal Direttore Generale dall Auls, dal Presidente dei Consultori famigliari di Pordenone - Portogruaro . \*\* Anno 2016 **Alessandria** : sottoscrive il Presidente del Tribunale e del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati . \*\* Anno 2017 **Forli**: sottoscrivono il Presidente del Tribunale , il Presidente del'Ordine degli avvocati ed in Presidente del Comitato pari opportunità \*\*Anno 2018 **Bari**: sottoscrivono il Presidente del Consiglio dell'Ordine degli avvocati ,il Presidente del Tribunale, il Presidente della Prima sezione civile ( sezione che si occupa evidentemente di qustioni di diritto di famiglia ) , il Presidente della Commissione famiglia , ed il presidente della sezione di Bari dell' Osservatorio del diritto di famiglia \*\* Anno 2018 **Verona** sottoscrive il Presidente del Tribunale e quello dell'Ordine degli avvocati con l'adesione di AIAF , ONDIF , Camera Minorile ,Cammino , Unione giuristi cattolici e Valore prassi. \*\* Anno 2019 **Milano** vengano qualificate solo come linee guida e sono sottoscritte dalla Corte di Appello ( Presidente e Presidente della sezione famiglia ), dal Tribunal di Milano , dal Consiglio dell'Ordine e dall'Osservatoio sulla giustizia civile) \*\* anno 2019 **Perugia** il Protocollo è stato sottoscritto dal Presidente del Tribunale ,dall'Ordine degli avvocati ,dalla associazione italiana avvocati famiglia e minori , dal Forum delle Associazioni famiglia dell'Umbria , dall'Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia, dalla camera Civile , dall'ass.avvocati matrimonialisti italiani. \*\* anno 2019 **Venezia** il Protocollo è sottoscritto dal Presidente dell'ordine degli Avvocati e dal Presidente del Tribunale. Scorrendo rapidamente questo gruppo esemplificativo di Protocolli, ma anche dopo aver esaminato gli altri, si può facilmente evincere che, eccezion fatta che per Pordenone, nessun altro ha ritenuto di coinvolgere le Aziende sanitarie locali, i consultori, l'Ordine degli Psicologi e degli assistenti sociali. Solo Forlì ha inserito tra i sottoscrittori il comitato pari opportunità, molto pochi (Firenze , Milano , Verona e Perugia ) altre associazioni , nessuno il Tribunale dei Minorenni , pochi la Procura della Repubbica e **[nessuno i Centri Antiviolenza.]{.underline}** Si differenziano tra tutti Aosta e Verona che hanno adottato dei Protocolli di intesa per la prevenzione ed il contrasto della violenza nei confronti della persona e della comunità famigliare, ma **solo Aosta** ha collaborato con il Centro Antiviolenza mentre Verona si è limitata ad redigere linee guida per il Tribunale . La mancata presenza dei Centri Antiviolenza ai tavoli di discussione ed elaborazione di linee guida e/o protocolli è significativa. Nei fatti ne limita l'efficacia ma si pone anche in contrasto con specifiche norme da tempo in vigore . Si consideri ad esempio il recente art.473 bis-15 c.p.c. e l'art. 342 ter c.c (sebbene norma risalente nel tempo) che si riferisce agli ordini di protezione contro la violenza al suo secondo comma stabilisce che il Tribunale "*possa disporre l'intervento dei Servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione famigliare anche delle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l'accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi o maltrattamenti*". Ora, se è vero che tale ultima norma non è attuale ed andrà sicuramente adeguata ai cambiamenti intervenuti, (si consideri tra tutti la contradditorietà tra il riferimento all'invito alla mediazione famigliare e l'art. 48 della Convenzione di Istanbul che prevede il divieto di metodi alternativi di risoluzione del conflitto o di misure alternative alle pene obbligatorie), va invece sottolineato che di questo interlocutori (i centri Antiviolenza) operativi , attivi sul territorio, riconosciuti normativamente, non si si rinviene traccia nella elaborazione dei cd Protocolli. Eppure il ruolo che i Centri Antiviolenza hanno avuto e ricoprono tutt'ora è sempre più riconosciuto e valorizzato, non solo per il lavoro che da anni li lega al territorio ( se e quando riescano a sopravvivere con gli inesistenti contributi che vengono dati loro) ma anche alle leggi nazionali e regionali che riconoscono competenza , attribuendo loro anche un ruolo preciso[^75]. Non va dimenticato inoltre che le sedi giudiziarie rappresentano spesso il faticoso punto di arrivo per le donne in situazioni in cui i rapporti con il partner era stato caratterizzato da prevaricazione, da maltrattamenti, da violenza talvolta anche nella forma della violenza assistita e che proprio per questo le donne si sono rivolte ai Tribunali , dopo un percorso al Cav (centro antiviolenza) che può iniziare anche in pendenza di giudizio. E quindi va considerato che la presenza dei centri antiviolenza al tavolo di discussione e di concertazione di un protocollo in materia di diritto di famiglia apparirebbe non solo opportuno ma indispensabile . Ciò non solo per la sicura esperienza maturata sul campo da chi con le donne vittime di violenza lavora quotidianamente , ma anche perchè l'ottica di lettura, di interpretazione e di azione dei Centri antiviolenza costituisce un utile correttivo ad un approccio che non può essere neutro quando si incorra in una situazione di violenze contro le donne. Peraltro è da sottolineare che detti Protocolli non vengono **neppure inviati** per conoscenza ai Centri antiviolenza del territorio con la richiesta di eventuali integrazioni e/O osservazioni o anche di mera presa di atto . E ciò rappresenta l'ennesimo esempio di quella mancanza di coordinamento e di comunicazione tra i diversi interlocutori in ambito istituzionale ed giudiziario. E consente di introdurre un altro rilievo critico che riguarda la frammentarietà degli interventi istituzionali , il loro mancato collegamento , anzi per essere più chiari l'evidente scollamento che esiste tra le varie istituzioni , gli Organi giudiziari stessi e ancor prima tra i vari interlocutori che sono interessati e dovrebbero essere coinvolti nel contrasto alla violenza in senso più generale e in senso più specifico nella elaborazione di linee guida/protocolli Questa frammentarietà diventa, a sua volta, causa di poca tempestività, incisività ed efficacia degli interventi e rappresenta un dato di macroscopica evidenza, malamente vissuta dalle parti coinvolte in un procedimento di famiglia , dai loro difensori e anche dallo stesso Giudicante. Si dovrebbe in realtà avere uno strettissimo legame tra i vari organi giudiziari tra il Tribunale civile quello dei minorenni, la Procura ed il Tribunale penale . E non si ritiene che il comma 8 dell'art. 473 bis -- 12 di nuova formulazione vi ovvi laddove prevede che il ricorso introduttivo (onerando la parte quindi) debba indicare la esistenza di altri procedimenti, aventi ad oggetto in tutto o in parte le medesime domande o domande ad esse connesse, laddove sarebbe stato più semplice prevedere un meccanismo di circolazione delle informazioni onerando gli organi giudiziari . Per far comprendere in via esemplificativa ciò che questo di fatto ha comportato e potrebbe comunque ancora comportare , "calato" nei protocolli che si stanno esaminando basta valutare che in gran parte di essi si fa riferimento "all'obbligo" del legale che assiste una parte in un procedimento di famiglia di dare comunicazione della pendenza di altro procedimenti avanti il Tribunale dei Minorenni. E tale esigenza di circolarità non viene neppure recepita da tutti i Tribunali. Oltre a ciò manca qualsivoglia raccordo tra procedimento penale e procedimento civile, limitata la comunicazione penale alla procura minorile ex art. 609 decies c.p.p . Eppure, da tempo, il Consiglio superiore della Magistratura ( già con propria risoluzione del 2018) segnalava la necessità di cooperazione delle magistrature ordinarie , civili , penali e minorili quando sia pendente un procedimento di separazione personale o di divorzio o comunque relative alla separazione delle parti ,per evitare la possibilità di vittimizzazione secondaria del coniuge e dei minori vittime e loro volta di violenza diretta o assistita . Questo in quanto donne e minori sarebbero costretti in difetto di una doverosa acquisizione di ufficio degli elementi di prova che fondano l'apertura di un procedimento penale o avanti il Tribunale minorile a ripercorrere e ripetere più e più volte le loro vicende personali, con possibilita'- non così remota- che vengano pronunciati provvedimenti tra loro contradditori o del tutto inconciliabili . Proprio a tal riguardo il Consiglio superiore della Magistratura aveva sottolineato la necessità di un intervento legislativo al riguardo, sollecitando gli Uffici delle Procure e dei Tribunali a formalizzare accordi al riguardo. Inviti che non risultano essere stati colti in modo organico , coerente e conforme neppure in una sede che potrebbe aprire la strada alle "cd buone pratiche" e cioè nella formulazione dei Protocolli che non dovrebbero considerare la acquisizione degli atti e provvedimenti emessi da diverse autorità solo come un obbligo in capo ai Difensori . Che la mancanza di comunicazione e trasmissione tra le varie Autorità costituisca un grave elemento di debolezza è dimostrato dalla necessità avvertita dal legislatore di inserire nel testo normativo penale l'art.64 bis disp.att.c.p. introdotto dal cd Codice rosso (legge 69/2019) . Norma che prevede che ai fini della decisione nei procedimenti di separazione personale dei coniugi e dei procedimenti relativi a figli minori di età ed all'esercizio della responsabilità genitoriale , copia dell'ordinanza di applicazione delle misure cautelari personali o che ne dispongano la sostituzione o la revoca, l'avviso di conclusione delle indagini preliminari, del procedimento di archiviazione per i reati di cui agli art. 572, 609 bis , 612 bis e ter , 582, 583 quinquies nella ipotesi aggravata ai sensi dell' art.576 , primo comma numero 2 e 5 e 577 primo comma n.1 secondo comma siano trasmessi al Giudice competente. La trasmissione è d'obbligo anche nella diversità delle posizioni processuali e di certo il dato fattuale può agevolare la valutazione del Giudicante. Solo con l'introduzione dell'art. 64 bis disp.att quindi ci si troverebbe di fronte ad una regolamentazione che introduce un rapporto di comunicazione tra due differenti autorità Giudiziarie e che si pone come tassativo . Va verificato poi nella pratica quanto questo avvenga effettivamente. Andrebbe probabilmente alla luce di questo riconsiderato con attenzione il rapporto tra procedimento penale e procedimento civile chiedendosi anche se sia opportuno (ma non confligga con l'art. 27, 2 comma della Costituzione) anche l'acquisizione della semplice notizia di reato al fascicolo del procedimento civilistico . Sotto tale profilo prevedere proprio nei Protocolli una forma di trasmissione automatica e quindi di conoscenza tra le differenti autorità giudiziarie appare non solo utile ma doverosa. La formulazione degli atti -------------------------- Merita un riferimento anche il contenuto dei cd protocolli laddove prevede dei criteri per la stesura degli atti processuali, proprio perché esso può andare ad orientare, permeare e condizionare lo stesso andamento del giudizio . Va evidenziato come alcuni giungano addirittura, in loro parti specifiche a dare indicazioni su come debbano essere formulati e redatti gli atti . Si possono distinguere due diversa tipologie: a=) Un primo gruppo di Protocolli richiede addirittura una sorta di astensione nel riferire aspetti più strettamente personali , eventualmente riferibili alle ragioni della separazione, riservando la narrazione degli stessi al deposito della Cd Memoria Integrativa ( art.709 c.p.c)[^76]. Bari invece, sul presupposto della natura bifasica del procedimento ritiene che la udienza presidenziale richieda unicamente la deduzione di fatti e la allegazione di documenti funzionali all'emissione dei provvedimenti presidenziali essendo l'udienza stessa di fatto mirata ad una funzione principalmente conciliativa, volta quindi alla consensualizzione . Tanto da richiedere che le vicende personali (come se vi possa esser altro !) non vengano portate all'attenzione del Presidente come le vicende separatizie , e l'atto sia inoltre limitato nella sua lunghezza. Verona invece chiede che siano indicate **sinteticamente** le cause . b\) Un secondo gruppo di Tribunali (e di protocolli) ritiene utile al contrario ed opportuno che siano indicate le cause della separazione e nei procedimenti divorzili anche gli eventuali inadempimenti alle statuizioni giudiziarie . Tutti indistintamente i Tribunali sono molto rigidi nel richiedere che in allegato agli atti sia acquisita la documentazione che consenta di individuare le disponibilità economiche delle parti e quindi i redditi, siano essi annuali o mensili, e le eventuali rendite di cui le parti siano titolari . Alcuni addirittura (come Perugia) chiede il deposito degli atti di acquisto dei beni, la precisazione se vi siano titoli di godimento su altri immobili ,ma anche se la famiglia si doti di collaboratori famigliari, se vi siano componenti iscritti a circoli ricreativi o associativi (sempre Perugia). Forlì invece si limita a richiedere che venga fornito ogni elemento utile per stabilire il tenore di vita . Appare di sicuro singolare questa diversità di metodo di costruzione della udienza presidenziale e degli atti che in essa vengono depositati e scambiati , anche in ragione del fatto che oramai la prima udienza rappresenta una sorta di anticipazione della decisione finale, seppure mirata alla pronuncia dei provvedimenti temporanei ed urgenti che comunque consolidano, spesso per lungo tempo se non sino alla sentenza, la regolamentazione dei rapporti personali e patrimoniali . Ma ciò che pare piuttosto singolare è che l'aspetto personale , quello delle relazioni tra le parti e spesso tra loro quali genitori, cosi pregnanti nei procedimenti di famiglia, venga posto in secondo piano rispetto alla disclosure economica. Volendo trarre delle conclusioni dalla disamina di questi protocollo non si può che andare a rilevare l'applicazione delle norme di diritto in una ottica riduttiva, mirata alla risoluzione del conflitto, limitata alla sola definizione degli aspetti economici. Altre prescrizioni riguardano invece la richiesta di utilizzare nella stesura degli atti i principi di sinteticità e chiarezza. Se è pur vero che state introdotte modifiche legislative volte alla semplificazione del momento decisorio: si pensi alla sostituzione della ordinanza alla sentenza , alla decisione immediata ex art.281 sexies c.p.c , alla motivazione concisa e che successivamente l'interesse del legislatore si è esteso introducendo e richiedendo principi di sinteticità e chiarezza negli atti processuali siano essi utilizzati da parte del Giudice che dalle parti. Tali principi già in vigore nel processo amministrativo e contabile in realtà appaiono molto vaghi : è chiaro che la sinteticità va rapportata al contenuto dell'atto prevedendo l'esclusione di ripetizioni e ridondanze ,e si riferisce anche alla dimensione dell'atto e quindi alla sua proporzione al numero delle questioni trattate e alla loro complessità . Mentre la chiarezza fa riferimento alla impostazione ordinata dello scritto ed alla sua comprensibilità . Ora se questi criteri sono di certo elementi apprezzabili nella lettura dell'atto , va però tenuto conto che gli atti in un processo in cui sono coinvolte le relazioni personali , in cui anche la materia giuridica è spesso intrisa di dolore e sofferenza, in cui le aspettative delle donne di essere credute ed ascoltate ed avere giustizia non devono essere ridotti solo a meri modelli da compilare o nei quali riportare unicamente i dati da cui poter evincere quale fosse il bilancio famigliare tra entrate ed uscite . Ben sappiamo che di frequente non tutto quello che le donne ritengono importante debba per ciò stesso essere portato a conoscenza del Giudice o abbia un rilievo fondante per una eventuale decisione ma comunque offre la cornice entro la quale si è svolta la vita delle parti. Limitare anche la possibilità di parlare attraverso gli atti ma anche in sede di loro audizione, togliere voce a chi faticosamente l'ha ritrovata appare un ulteriore atto di prevaricazione e di violenza . Piuttosto che limitare gli atti si dovrebbe invece prevedere di inserire all'interno di protocolli degli obblighi di rispetto nei riguardi delle donne quali ad esempio quello di non incorrere nella narrazione degli atti nell'uso di stereotipi di genere . Le fonti internazionali ----------------------- Nessuno dei Protocolli contiene riferimenti diretti ma neppure richiami generici a principi enucleati in fonti internazionali che nel tempo si sono più direttamente occupati delle tematiche della violenza contro le donne, fonti che ai sensi dell'art.117 della Costituzione hanno pari dignità di quelle nazionali e dovrebbero trovare altrettanta esecuzione ed applicazione delle norme interne. Manca, ad esempio, ogni riferimento al contenuto della CEDAW (definita Carta internazionale dei diritti delle donne che impegna gli stati firmatari ad avviare misure che siano utili a porre fine alle discriminazione contre le donne e che è stata ratificata dalla Italia il 10 giugno 1985 ed entrata in vigore un mese dopo). Ma ciò che è peggio è che risulta del tutto ignorata la Convenzione di Istanbul del 2011. Eppure la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con sentenza del 29 gennaio 2016 al n. 10959 si è chiaramente espressa affermando: " *Come è stato osservato la direttiva 2012/29/UE , con il suo pendant di provvedimenti-satelliti ( le direttive sulla tratta di esseri umani , sulla violenza sessuale , sull'ordine di protezione penale, tra le altre) e di accordi internazionali ( la Convenzione di Lanzarote e Istanbul in particolare) rappresenta un vero e proprio snodo per le politiche criminali , di matrice sostanziale e processuale ,dei legislatori europei .Non tanto per le singole indicazioni da attuare a livello nazionale ( diritti di informazione , assistenza linguistica , accesso alla giustizia, garanzie di protezione e via discorrendo ) quanto per la necessità , imposta dal testo europeo di definire una chiara posizione sistemica dell'offeso .* *In tale contesto si è inserita l'attività del legislatore interno che , a fronte dell' emersione del fenomeno della violenza in ambito famigliare e domestico e in presenza di una pluralità di atti internazionali di cui tener conto ha provveduto a modificare in larga parte la normativa sostanziale e specialmente processuale con interventi settoriali , spesso attuati con lo strumento del decreto legge , anche reintervenendo con successivi adattamenti degli stessi istituti : un vero e proprio "arcipelago" normativo nel quale non sempre è facile orientarsi. Di tale quadro di riferimento complesso e frammentario si deve tener conto al fine di risolvere la questione di cui trattasi , che richiede di essere inquadrata nell'ambito delle fonti normative interne ed internazionali* ." Ciò nonostante di tali fonti sovranazionali non troviamo traccia nei Protocolli e tantomeno nella motivazione dei provvedimenti temporanei ed urgenti ,non certo nelle sentenza , non nelle motivazioni di ordinanze , non nella emissione di eventuali provvedimenti cautelari o di modifica di sentenze o provvedimenti provvisori. E sarebbe di certo molto interessante verificare in quante sentenze di primo o secondo grado siano contenuti riferimenti alle fonti internazionali. Eppure se alla Convenzione di Istanbul bisogna guardare come ad una fonte di legge ,allora di essa dovrà tenersi conto in tutti i gradi ed in tutti gli ambiti in cui essa potrebbe o dovrebbe trovare applicazione . Quale miglior ambito allora di quello attuativo -pratico proprio dei giudizi e delle procedure in cui si debba procedere ad attuare forme di tutela per donne vittime di violenza ? Non va dimenticati che l'art.5 della Convenzione di Istanbul (intitolata obblighi degli Stati e dovuta diligenza) al punto 2 prevede espressamente che : "*Le parti adottino le misure legislative e di **altro tipo** per esercitare la debita diligenza nel prevenire , indagare , punire i responsabili ( e risarcire le vittime di atti di violenza commessi da soggetti non statali)".* Ma anche al capitolo IV intitolato "protezione e sostegno "*all'art. 18 II comma prevede che le parti adottino misure legislative e di altro tipo necessarie con riferimento al loro diritto interno per garantire che esistano adeguati meccanismi di cooperazione efficaci tra tutti gli organismi statali competenti , comprese le autorità giurisdizionali , pubblici ministeri , le autorità incaricate delle applicazioni della legge , autorità locali e regionali ed organizzazioni non governative e le altre organizzazioni o entità competenti per proteggere e sostenere le vittime"*. Ma si consideri anche il capitolo V "Diritto sostanziale" , all'art.29 procedimenti e vie di ricorso in materia civile o l'art. 48 divieto di metodi alternativi di risoluzione dei conflitti , anche nel corpo di detto articolo troviamo la medesima formula che prevede sia l'adozione di misure legislative ma anche l'assunzione di iniziative di "altro tipo". Se lo Stato Italiano che ha ratificato la Convenzione e ad essa deve attenersi , allora gli si richiede coraggio , trasparenza , coerenza e iniziativa. Viene da chiedersi se non si possa trovare un buon ambito di applicazione od almeno un buon banco di prova della Convenzione di Istanbul proprio nella predisposizione di Protocolli (così amati dai nostri Tribunali !)o di linee guida relative alla trattazione dei giudizi di separazione, divorzio, regolamentazione di questioni relative a figli minorenni o maggiorenni non economicamente autonomi misure cautelari , che recepiscano questi principi ed agli stessi diano applicazione. Indispensabile e condizione indeffettibile però è prendere consapevolezza da parte di magistrati , CTU, servizi sociali , servizi sanitari che non tutte le relazioni intime sono conflittuali, il che presuppone un piano di parità e di confronto anche se spinto e di dialettica seppure estrema, ma che alcune trascendono diventando relazioni violente e maltrattanti in cui una delle parti è vittima dell'altra . E che come tali vanno nominate e che questo tipo di violenza deve essere riconosciuta come avente natura strutturale, connaturata alla manifestazione di potere di un soggetto su di un altro. Questo approccio costituisce l'asse portante del metodo e del pensiero di chi lavora con le donne vittime di violenza e che delle stesse cerca di far sentire la voce . Ma purtroppo queste competenze non vengono adeguatamente valorizzate e considerato come patrimonio comune il loro lavoro, come dovrebbe essere per tutti i soggetti istituzionali che di tali situazioni hanno modo o dovere di occuparsi. Ed allora vi è necessità che le competenze si intreccino non solo per favorire un utile imprescindibile scambio di differenti punti di attenzione ma anche per formulare criteri di indagine e di verifica mirati ad esempio in sede di Ctu alla valutazione del rischio ed in generale alla assunzione di elementi probatori utili che con un differente approccio non verrebbero colti . Se ad esempio si facilitasse la richiesta di misure cautelari ancora poco utilizzate in sede civile prevedendo anche nei Protocolli l'inserimento di alcuni elementi o prerequisiti in modo da supportare la richiesta finalizzandola al suo accoglimento. Ciò potrebbe avvenire, ad esempio, acquisendo specifiche relazioni dei centri antiviolenza che hanno avuto modo di incontrato la donna a protezione della quale si richiede un particolare provvedimento ( misure cautelari , ma anche visite protette per i figli) cosi da poter offrire al meglio ed in tempi veloci , evitando gli usuali ritardi conseguenti alla richiesta di acquisizione che sconta i tempi biblici dei Servizi così da raccogliere tutti gli elementi probatori necessari. Ma andrebbe anche potenziata la figura del Pubblico Ministero al quale comunque competono i compiti di cui allo art.70 c.p.c che dispone di una facoltà ( ed un obbligo ) ma al tempo stesso di poteri di indagine e di intervento di certo superiori a quelli che spettano alla parte. Cosicchè i provvedimenti sia se emessi "inaudita altera parte" ma anche se venisse disposta la comparizione delle parti, sarebbero completi pur nelle loro sommarietà di indagine costituendo il frutto della acquisizione del maggior numero di elementi . Non si ritiene che l'utilizzo di un potere di *disclosure* da parte del Giudicante ecceda quelli che gli sono propri, travalicando l'onere probatorio che grava sulla parte, sia perché potrebbe sempre essere indicato come prerequisito da inserire nel Ricorso ma anche in ragione di effettuabili plurimi richiami a norme costituzionali art. 31 e 32 ma anche 29 e 39 sotto il profilo della eliminazione di condizioni di discriminazione. Ed a maggior ragione laddove vi fosse necessità di protezione di donne vittime di violenza o di minori, questi ultimi soggetti privi di propria capacità di agire e quindi di essere loro stessi soggetti autonomi nel processo con autonoma difesa . Vanno analizzate le modifiche che a tale impostazione potrebbero derivare dalla recente riforma e dalla introduzione della nuova figura del curatore dei minori . A ciò si potrebbe ovviare potenziando la presenza obbligatoria del PM ex art.70 c.p.c ed il suo conseguente intervento obbligatoria a pena di nullità nei procedimenti indicati nel predetto articolo , ma anche l'art.72 c.p.c che regolamenta i poteri del Pubblico Ministero e lo riconosce alla stessa stregua di quelli che competono alle parti , richiamando l'art. 267 c.p.c , norma che fa riferimento allo intervento del terzo nel processo ,con possibilità conseguente di produrre documenti e dedurre prove. Quindi non un ruolo di mero supporto ed integrazione che gli viene riconosciuto al punto 3) del medesimo articolo 70 in tutti i procedimenti in cui si ravvisa un pubblico interesse . Sussiste conseguentemente la possibilità teorica che sia il pubblico Ministero con i propri poteri di impulso non appena notiziato della pendenza di un procedimento ad avere modo di assumere ed ottenere informazioni utili e necessarie e di farle acquisire al Giudicante. Sempre con riferimento alle norme di cui all'art.342 ter c.c va segnalato che andrebbe soppresso , o almeno si dovrebbe dar atto che vi è contrasto con l'art.48 della Convenzione di Istanbul nella parte in cui si prevede la possibilità di disporre l'intervento di un centro di mediazione famigliare . Comunque considerando che vi possano essere situazioni gravi ma non non tali da far sussistere le condizioni per la richiesta di misure cautelari, le soluzioni per creare una condizione di protezione potrebbero essere altre e tutte facilmente praticabili: prevedere ad esempio una corsia preferenziale per la trattazione dei procedimenti di famiglia che si presentini caratterizzate da comprovate condizioni di violenza . Lo farà il nuovo 473 bis .15 c.p.c ? Pur non riconoscendo alla funzione dei protocolli alcun effetto salvifico e tantomeno diretto all'ottimizzazione della procedura , pur tuttavia considerando l'evidente tendenza dei Tribunali ad adottarli si chiede almeno che essi diano applicazione alle norme ed ai principi enunciati nelle Convenzioni internazionali ed in quella di Istanbul che per completezza ed esaustività si pone come una vera e propria guida e sicuro criterio di orientamento . E' necessario, pertanto, che i Tribunali abbiano il coraggio di distinguere tra situazioni di conflitto e situazioni di violenza e la affrontino in modi e con strumenti diversi . E' solo nel primo caso infatti che si potrà pensare ad un invito ad una consensualizzazione del procedimento come risultato di una riflessione di entrambe le parti, non certo come modo per negare o ancor peggio mistificare una situazione relazionale violenta . La mancanza di coordinamento tra le istituzioni i in principalità ma anche tra tutti i soggetti che si occupano del contrasto alla violenza di genere è un elemento che è stato ripetutamente sottolineata già nel 2012 ( esattamente 11 anni) fa da Radshida Manjoo che in qualità di Special Rapporteur ONU aveva visitata l'Italia e nella sua relazione conclusiva aveva dichiarato che : "Il *Governo italiano ha fatto molti sforzi per affrontare la questione della violenza contro le donne anche attraverso l'adozione di leggi e politiche rivolte alla promozione e alla tutela dei diritti delle donne. Tuttavia queste iniziative non hanno portato alla riduzione del fenomeno del femminicidio o al miglioramento delle condizioni di vita di molte donne soprattutto straniere o disabili* " Tra le varie raccomandazioni valide ancor oggi anche nella successiva e richiamate nel più recente rapporto del Grevio l'invito , tra i molti , alla creazione di una struttura governativa dedicata alla parità di genere ed alla lotta contro la violenza con funzioni di coordinamento tra tutte le varie istituzioni coinvolte , a promulgare una legge specifica che consenta di superare la frammentazione ed i ritardi spesso conseguenti proprio a questa manca di unitarietà e difetto di collegamento tramite un costante scambio di informazioni . Ritornando al tema ed ai Protocolli quello che verrebbe richiesto è uno sforzo minimo non solo per una efficace ed ritengo obbligatoria applicazione delle norme ma anche per dare realizzazione a quegli interventi che le norme stesse richiedono siano esse nazionali che sovranazionali ed ai principi che esse contengono . Questo non tanto e non solo al fine di creare un comune sentire o semplicemente e riduttivamente una maggiore sensibilità ma una comune cultura giuridica ed uno stile professionale per magistrati e avvocati attento, sensibile e rispettoso del genere. h) Riflessioni e proposte in merito alla legge 11 gennaio 2018 al n. 4 e decreto 22 maggio 2020 n.71 ---------------------------------------------------------------------------------------------------- la Legge per gli Orfani di crimini domestici deve essere letta anche quale assunzione di responsabilità da parte dello Stato per la sua incapacità di essere riuscito a evitare l'evento luttuoso che ha reso poi questi figli "Orfani" . Sempre di più i femminicidi infatti vengono assimilati a reati di tipo mafioso in cui erano emersi segnali di pericolo, registrate minacce , comportamenti violenti e/o aggressivi : si erano cioè evidenziati anche in tempi ristretti tutti quegli elmenti dai quali poter desumere che "potesse succedere qualcosa d'altro " e che l'epilogo "avrebbe potuto essere tragico ed irrimediabile". Non si può disconoscere che molto è stato fatto e che vi sia una maggiore attenzione , ma la sensibilità personale e la stessa formazione specifica viene vanificata se non vi sono risorse economiche adeguate e se la formazione stessa non viene estesa ,ma anche costantemente rinnovata e ridiscussa , a tutti coloro che hanno modo per lavoro o per impegno politico e di militanza di entrare in contatto con situazioni di violenza contro le donne. Non possiamo avere delle eccellenze e poi nella quotidianeità e cosa ben più grave nelle aule di giustizia, scontrarci con la costante mancata "valutazione del rischio" anche nelle Ctu o ancor peggio nelle Relazioni dei Servizi sociali , con il continuo invito alla mediazione tra le parti, con la evidente difficoltà di molte istituzioni di riconoscere e poi nominare la violenza come tale . E ovviamente cercare di porvi rimedio. Lo Stato ha quindi cercato di ovviare ad un sua inefficienza e talvolta inerzia , andando a tutelare coloro che sono a tutti gli effetti esse stesse vittime **dirette** di quanto accaduto. Ma c'è un altro aspetto che va tenuto presente per le conseguenze che viene ad avere nella stessa applicazione della legge e del suo regolamento attuativo ( di due anni successivo peraltro ) e riguarda invece più specificatamente l'attenzione da porre *[agli autori dei fatti]{.underline}*. Essa attiene alla circostanza che i femminicidi non possono essere riportati ad atti compiuti da uomini disturbati mentalmente o affetti da malattia. Talvolta, ma in casi rari, è accaduto che si presentasse un profilo depressivo, dei disturbi paranoidi o di ansia , ma raramente ci si è trovati in presenza di un vera forma di schizofrenia o di psicosi tali da inibire il contatto dell'autore di reato con la realtà o di un disturbo talmente grave da incidere sulle capacità di discernimento così da far ritenere che il soggetto non avesse capacità di intendere e volere. Ricordiamo che la Cassazione a Sezioni unite con sua sentenza n.9163/2005 ha affermato espressamente che non hanno rilievo ai fini della imputabilità anomalie caratteriali, disarmonie della personalità , alterazioni di tipo caratteriale, deviazioni del carattere che non abbiano rilievo sulla capacità di autodeterminazione dell' agente. Né tantomeno hanno rilievo gli stati emotivi e passionali per la espressa disposizione di cui all'art.90 c.p. Abbiamo quindi l'autore di un femminicido che è stato il compagno , il fidanzato, il marito ed è un padre [sano di mente .]{.underline} E questo se da un lato rende più difficoltoso per coloro che hanno perso un genitore per mano di un altro , comprendere perchè proprio quello violento sia il sopravissuto costringe a confrontarsi , anche sul piano giuridico con colui che può farsi portatore di proprie autonome richieste nei riguardi di quei figli che abbia reso orfani. La Legge n. 4/2018 rappresenta una conquista recente di civiltà giuridica nel nostro panorama e nel nostro Paese che deve comunque prendere atto delle normative internazionali e della loro pari efficacia ex art.117 della Costituzione alle norme interne. Tra tutte la Convenzione di Istanbul. Ma lo fa subendo anche quello che è stato un passato recente ma non certo giuridicamente accettabile in una Società democratica di cui non possiamo non tenere conto ,anche con riferimento alla Legge 4/2018. E' sufficiente riflettere ad esempio che nel caso di delitto d'onore - abrogato solo nel 1981 - gli orfani di madre , che potrebbero ancora essere viventi data la distanza temporale modesta e di cui il padre si era reso colpevole del fatto-reato erano stati costretti a prendere atto che il loro congiunto godeva , per legge dello Stato , di un trattamento privilegiato riconosciutogli proprio dalla attenuante specifica dell' art.587 c.p che comportava una consistente diminuzione di pena . Anche la legge 4/2018 presenta comunque ancora imprecisioni e carenze. Già confrontando il titolo delle due disposizioni si nota tra loro una difformità :la legge 4/2018 é intitolato "Modifiche al codice penale e di procedura penale ad altre disposizioni" individuando quali destinatari gli orfani di crimini domestici , norma poi estesa dall'art.8 della Legge 19 luglio 2019 n.69 che reca modifiche al codice penale e di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela di vittime di violenza domestica e/o di genere . La intestazione del Regolamento usa invece invece parole differenti, identificando in "orfani di crimini domestici e di reati di genere" ( oltrechè di famiglia affidataria ) coloro in favore dei quali vengono erogate le misure di sostegno . Rimane quindi un vuoto nella intestazione letterale delle della legge e del decreto ma al tempo stesso una notevole indeterminatezza (che genera confusione) nell'utilizzo delle parole, oscillando il legislatore indistintamente tra violenza domestica e violenza di genere, che non possono esser usate come sinonimi . Non è inutile ricordare differenze che tendono poi a sparire nei testi normativi, che la violenza di genere è un termine usato prevalentemente in letteratura sociologica per individuare la violenza manifestata ed agita, quando essa è legata ad stereotipi e a ruoli che la società attribuisce e assegna a uomini e donne. E' d'uso invece in queste materie usare il termine di "Gender based violence " corrispondendo tale espressione a quella che presente in normative internazionali , tra tutte la Convenzione di Istanbul, che sottolinea come la violenza e la vittimizzazione avvengano appunto sulla "base" ed "a causa" del genere . E' anche vero però che questa espressione può aprire la strada ad una diversa interpretazione e cioè a far considerare vittime di violenza non soltanto le donne , ma anche gli uomini e per entrambi i generi , i minori, e potrebbe essere adeguata per riferirsi anche alla violenza omo e transofobica . Non si dovrebbe quindi usare indistintamente il termine di violenza di genere e violenza domestica : solo nel decreto 71/2020 troviamo all'art. 2 comma 1 lett.a) la distinzione tra i soggetti beneficiari individuati come orfani di crimini domestici e sempre al comma 1 lett a n.2) orfani figli minorenni e maggiorenni ( non autonomi) di madre vittima di omicidio ( art.576 comma 1 n.5.1 c.p. ) e comma 1 lett. a.n 3) orfani, figli minorenni e maggiorenni economicamente non autonomi di madre vittima di omicidio a seguito dei reati di cui agli art. 609 bis e octies c.p. Quindi con un passaggio ed una specificazione ulteriore data dalla circostanza che è in queste norme che per la prima volta si parla di "**[orfano di madre".]{.underline}** Ed è questa precisazione che a mio avviso ci offre la possibilità di orientare la ricerca esclusivamente verso "coloro che abbiano perso la madre perchè uccisa ". L'assetto normativo in generale però presenta purtroppo alcune altre discrasie : ad esempio l'art. 1 lett. a n.1) non ricomprende tra le vittime le persone che fossero legate **solo** da relazione affettiva , poichè richiede **anche** la stabile convivenza, individuata la stessa secondo alcuni specifici criteri e venendo ad escludere quindi dalla applicazione della normativa quelle coppie che non avevano al momento dell'evento morte, la medesima e comune residenza . Una mancata comune residenza che potrebbe esser ascrivibile a molteplici ragioni , anche del tutto indipendenti dalla loro volontà oppure discendere da loro precise scelte di vita, a mio parere comunque insindacabili . Il riferimento tra l'altro ai criteri di identificazione delle residenza comune è di tipo squisitamente formale , e prescinde da fondate e spesso condivisibili ragioni siano esse di lavoro , di ordine fiscale o personale per le quali la coppia non abbia inteso avere la medesima residenza ma invece mantenerne due distinte . A ciò aggiungasi che la stabile convivenza viene individuata solo dimostrando la sussistenza di requisiti richiesti per la costituzione di una nuova famiglia. Si possono portare comunque più esempi per chiarire anche la confusione delle norme e nell'uso dei termini . Consideriamo l'art.10 legge 4/2018 ove il riferimento è sempre a persona unicamente legata in passato da relazione affettiva, senza alcuna previsione della stabile convivenza : quindi parrebbe che tale problematica si possa trovare solo nell'art.1 ove si parla sempre **di relazione affettiva e** **stabile convivenza,** nello l'art. 3 in tema di sequestro conservativo, nell'art.4 in tema di provvisionale e cosi ogni qualvolta si proceda all'individuazione di quale sia stato il rapporto tra vittima ed autore del reato . Altre note : il sequestro conservativo può avvenire sui beni che siano effettivamente solo dell'autore del reato e l'art. 316 c.p.p parla di *beni mobili ed immobili in prop*rietà , somme o cose a Lui ( all'imputato ) dovute. Quindi è da ritenere siano comprese anche la quota di partecipazione ad una società da considerarsi bene immateriale equiparabile a bene mobile non iscritto in pubblici registri poichè essa va a costituire la frazione del patrimonio che rappresenta. E comunque poichè si parla solo di beni pare evidente che siano esclusi i diritti. Quindi in che modo andrebbe ad esempio considerato l'usufrutto , diritto reale che pure ha un valore economico e di cui l'autore del reato sia titolare ? Andrebbero verificati e forse potenziati al riguardo i poteri di indagine e di investigazione del Pubblico MInistero con attenzione anche ad eventuali intestazioni fittizie e/ o apertamente simulate . Va segnalata poi anche l' anomalia dell' art. 12 relativa alla decadenza della assegnazione di alloggio residenziale solo per autori di violenza domestica che abbiano condanna anche **non definitiva** o definizione del giudizio ex e art. 444 cpp. Quindi paradossalmente abbiamo una decadenza dalla assegnazione precedente al giudicato : e viene da chiedere con che ricadute . Va anche valutata la esistenza di una sorta di norma di chiusura costituita dallo art. 28 del decreto 71/2020 laddove si stabilisce al suo secondo comma che laddove con sentenza non definitiva venga dichiarato la non ricorrenza del crimini domestici o del reato di genere "l'aiuto economico" non è soggetto a ripetizione . È singolare però nel testo di legge ( e del decreto ) si usino termini differenti quali "aiuti economici" , "benefici" o ancora "incentivi". Infatti al capo II sostegno al diritto allo studio all'art. 4 si parla di benefici e sempre di benefici all'art. 5 e 6 , 7 al capo II invece si modifica la parola facendo riferimento invece ad "incentivi", probabilmente termine più adatto alla materia lavoristica . Va segnalato anche la contraddittorietà con l'art. 13 legge 15 luglio 1966 n.604 i cui si parla di licenziamento per giustificati motivo oggettivo prevendendo però che il datore di lavoro, in questo caso incolpevole , perda i benefici già fruiti . Proprio l'uso indistinto dei termini crea confusione: andrebbe forse precisato quindi se per aiuto economico si debba intendere solo quello che viene erogato direttamente agli orfani o anche gli *incentiv*i ed i *benefici* . Altre problematiche che ho rilevato riguardano l'art.5 delle Legge n.4/2018 ove il termine usato è di "sospensione dalla successione" e non di capacità a succedere. Il successivo riferimento poi all'art. 463 c.c ( casi di indegnità ) fa interrogare se vi sia automatismo tra la condanna o la richiesta di applicazione ex art. 444 c.p.p e la prevista indegnità o se non si debba invece applicare la procedura ordinaria, che richiede una sentenza costitutiva da emettere su domanda dello interessato. Non è di poco conto ricordare che la giurisprudenza ha comunque esteso anche ai legati la indegnità a succedere . Altri problemi che potrebbero insorgere riguardano invece l'art.9 intitolato "disposizioni in tema di assistenza medico psicologica" . E'intuibile infatti che la condizione degli orfani ed ancora più di quelli il cui padre si sia reso autore del fatto ( i cd Orfani speciali secondo la definizione di Maria Costanza Baldry ) possono solo in parte essere paragonabili a coloro che hanno perso un genitore in seguito ad eventi luttuosi ( catastrofi naturali , incidenti stradali tra gli altri ) . Senza dimenticare che , come si era anticipato molto spesso l'evento luttuoso costituisce l'esito di altri comportamenti violenti e criminali di cui l'autore si è reso responsabile in passato e ai quali anche i figli hanno assistito , casi in cui quindi il lutto recente si aggiunge ai ricordi. Nè va trascurata la ipotesi non così infrequente, che l'autore del femminicidio si suicidi o comunque sia ristretto in carcere . Si tratta quindi di situazioni complesse per le quali si fa fatica a comprendere cosi si intenda per " il tempo occorrente a garantire il pieno recupero dello equilibrio psicologico " come limite per garantire il sostegno psicologico e gli altri benefici sanitari. Un ultimo rilievo infine riguarda la mancanza di automatismo nella decadenza dalla responsabilità genitoriale . L'art. 34 c.p.infatti prevede che la stessa sia però subordinata alla condanna ed in alcune specifiche ipotesi di reato . Ma non ritroviamo nella Legge n.4/2018 una norma specifica al riguardo : il che non significa ovviamente che il genitore autore del reato possa esercitare detta responsabilità ma che comunque vi sia necessità di un intervento di sollecitazione da parte dei famigliari o del Pubblico Ministero. In via di conclusione va purtroppo evidenziato come detta Legge sia poco conosciuta e per nulla applicata. Per renderla attiva ed operativa si potrebbero adottare alcuni correttivi e iniziative 1)Contattare i Tribunali ordinari in illustrando il progetto e chiedendo loro quanti procedimenti di separazione , divorzi, regolamentazione di figli non nati in costanza di matrimonio nel quadriennio 2018/2021 si siano conclusi con la formula di "non luogo a provvedere "a seguito del decesso di una parte, 2)contattare gli uffici di volontaria giurisdizione per avere indicazioni sulla nomina di tutori per minori orfani di vittime di femminicidio , 3)sempre in volontaria giuridizione e verificare se ci siano accettazioni beneficiate in favore di minori figli di vittime di femminicidio, 4\) verificare presso il Tribunale dei minorenni se vi si siano procedimenti "de poteste" aperti nei riguardi dell'altro genitore colpevole di femminicidio , 5\) richiedere di verificare presso il Miur o presso Atenei se vi siano richiesta di borse di studio per le ragioni di cui all'art.4 e previsione di benefici per struttura pubbliche o anche per istituti pubblici , o se siano state stipulate apposite convenzioni. 6\) Contattare l'Inps per la verifica di quanto abbiano ricorso / richiesto gli incentivi per le assunzioni. 7\) Contattare i CAAF di zona ugualmente per ricevere tali informazioni. 8\) Contattare l'associazione industriali ed artigiani per sensibilizzare ma anche per informare. 9\) Contattare anche l'Inail per accertare se vi siano state richieste ,ed eventuali concessioni di indennità , per " morte in itinere " della vittima di femminicidio . A latere andrebbe poi valutata la necessità di una formazione obbligatoria e congiunta , per avvocati e magistrati , la creazione di una banca dati a fini statistici nei vari Tribunali civili e penali e dei minorenni, i cui dati di rilievo e criterio di classificazione siano unici per tutta Italia così da avere una lettura integrata, coerente e conforme degli stessi.