INDIPENDENZA ED AUTONOMIA DELLA MAGISTRATURA ============================================ a) Magistratura ordinaria ------------------------- Nella Costituzione le garanzie di indipendenza sono formulate direttamente nel Titolo IV per i magistrati ordinari, mentre vengono riservate alla legge ordinaria per i magistrati delle giurisdizioni speciali. L'indipendenza riguarda l'istituzione, l'organizzazione, l'ufficio, nonché i singoli componenti dell'ufficio giusdicente che non devono essere condizionati da qualsiasi altro potere dal punto di vista generale e istituzionale Sull'importanza della separazione dei poteri, non serve dilungarsi. Non è opportuno, in uno Stato democratico, che le promozioni ed i trasferimenti dei magistrati, siano decise dal Governo, che potrebbe premiare magistrati amici e punire quelli scomodi. La Costituzione, all'art. 104, ha stabilito garanzie di autonomia, in virtù delle quali la magistratura governa se stessa. Un'indipendenza che tutte le forze politiche a parole rispettano, ma che nei fatti infastidisce molti. In particolare, le critiche si appuntano sulle elezioni dei componenti magistrati del CSM (definiti "togati"). È noto a molti il fatto che negli anni i magistrati si sono affiliati, più o meno formalmente, ad associazioni, di stampo prevalentemente culturale, che però sono state un trampolino di lancio per le elezioni del CSM. Formalmente queste associazioni non sono riconosciute, nel senso che sulla scheda per le elezioni non compaiono simboli. È però sicuramente vero che, in molte circostanze, queste associazioni di magistrati hanno dato indicazioni di voto, ed hanno svolto la funzione di 'partitini' dei magistrati. Tuttavia, quando si critica l'esercizio del potere democratico, non si deve dimenticare che il problema non è la scelta dei rappresentanti, ma il loro controllo, ed i limiti al potere che è loro attribuito. La soluzione è stringere il nodo delle regole. Le promozioni, ed i trasferimenti dei magistrati non devono avvenire arbitrariamente, ma in base a criteri predefiniti e stringenti. Occorre potenziare i controlli, rendere trasparenti le scelte, criticabili i giudizi, effettivi i controlli, anche giurisdizionali. In Italia spesso chi è sovra ordinato (ossia posto in una posizione di potere), si sente sottratto al rispetto delle regole. Ed invece, è proprio l'esercizio di un maggiore potere che impone ancora più fortemente la necessità del rispetto della regola. I Giuristi Democratici hanno, poi, posto l'attenzione sulla necessità di potenziare le garanzie di indipendenza anche delle giurisdizioni speciali. In particolare del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Allo stato attuale, l'attività di governo, del Paese e del territorio, costantemente incontri sulla sua strada, spesso nelle vesti di ostacolo, la giustizia amministrativa e contabile. Si pensi ai ricorsi in materia ambientale che interessano le piccole e grandi opere, alle nomine, agli appalti, all'urbanistica, ai ricorsi in materia elettorale. La giustizia penale, ed il suo potenziale dispiegarsi in piena autonomia, possono incidere indirettamente sull'attività di governo, attraverso gli attori; la giustizia amministrativa e la giustizia contabile incidono, invece, direttamente sul momento esecutivo delle scelte. Nel tempo ciò ha generato una insofferenza del potere esecutivo rispetto ai giudici amministrativi (ed ancor più al peso del loro sindacato demolitorio) e tensioni intorno al meccanismo dei controlli. Gli ultimi anni hanno visto il declino della cultura costituzionale del bilanciamento e dei controlimiti ai poteri - proprio in un tempo storico in cui ve ne sarebbe più bisogno - e le tensioni sono divenute espliciti attacchi. Viene rappresentata una artificiosa contrapposizione tra interesse nazionale e rispetto delle norme, tra crescita del PIL e giustizia nell'amministrazione. Si dimentica, in tal modo, che l'unico interesse nazionale conoscibile al diritto è quello al rispetto della legge. Nessuno impedisce, a chi ha il potere, di modificare le norme, di cambiarne il contenuto. Ciò che però non si può concepire, senza scivolare al di fuori dello stato di diritto, è che si configuri una categoria di esercizio del potere al di fuori delle norme. Ciò che si osserva, nei ripetuti attacchi, è come si postuli invece uno scavalcamento della legge da parte del decisore. La regola deve divenire cedevole rispetto alla decisione assunta. Non è più la legge la portatrice dell'interesse collettivo nazionale, ma la decisione attiva, da chiunque presa, e con qualunque contenuto. Da ciò nasce la critica a chi garantisce efficacia ai precetti, il Giudice Amministrativo (o contabile), criticato non perché inefficiente, ma perché troppo rigoroso. Da questo nasce la contemporanea pulsione ad un addomesticamento della giurisdizione amministrativa e contabile. Quindi, il tema della indipendenza dei giudici speciali è assolutamente fondamentale, non solo per una compiuta divisione dei poteri, ma anche per la difesa dello stato di diritto. b) Magistratura onoraria ------------------------ A nostro avviso, è opportuno che termini il "precariato" del Giudice di Pace. Allo stato attuale, stante la temporaneità dell'incarico, il giudice di pace che ha conseguito una buona esperienza deve lasciare l'incarico. Mentre assume l'incarico un soggetto privo di adeguata formazione. Inoltre, non potrà essere certo un giovane ad investire professionalmente su una funzione di durata temporanea, ma sufficientemente lunga per impedirgli di percorrere, per tempo, altre strade. Infatti allo stato attuale è un ruolo scelto prevalentemente da persone al termine delle proprie rispettive carriere, spesso in pensione. Riteniamo dunque opportuna una riflessione. È indubbia l'importanza del lavoro svolto dai Giudici di Pace, di cui oggi, il sistema non potrebbe fare a più a meno. E' quindi opportuno che il sistema investa adeguate risorse per la formazione del Giudice di Pace. Che lo Stato dunque **[assuma]{.underline}** giovani, neo laureati, con un pubblico concorso. Persone che investano professionalmente in un'attività di ausiliari della giustizia, e che dunque godano di una retribuzione stabile , della copertura previdenziale etc.. Ciò permetterebbe, peraltro, di aumentare la competenza ordinaria, per valore, almeno fino a 10.000 euro di valore. c) Separazione delle carriere ----------------------------- Il problema della separazione delle carriere deve essere visto in maniera assolutamente laica, cercando di trovare soluzioni che evitino alcune inaccettabili commistioni tra giudice e pubblico ministero. Le norme attualmente vigenti, impediscono o rendono, comunque, estremamente difficile il passaggio da una funzione all'altra, ed hanno già, in buona parte, ovviato ai principali inconvenienti. Il restante problema di possibile commistione tra giudicante e requirente non pare tanto fondato sulla appartenenza allo stesso ordine, ma piuttosto determinato da ragioni di maggiore conoscenza e amicizia personale tra i magistrati. Si tratta, dunque, in prima battuta e senza voler essere eccessivamente superficiali, di questioni di natura personale che potrebbero essere risolte con un maggior impegno del giudicante a rispettare e applicare la propria autonomia nei confronti sia del pubblico ministero che dell'avvocato. Il principale timore in relazione alla separazione delle carriere è che essa possa incidere sull'indipendenza della magistratura e, conseguentemente, sulla tutela dei diritti dei cittadini. Essa andrebbe ad aggiungersi, oltre che alla delegittimazione della magistratura, alla richiesta di rottura del principio di obbligatorietà dell'azione penale, fulcro e base dell'uguaglianza dei cittadini. Sembra estremamente pericoloso contribuire ulteriormente all'opera di normalizzazione e limitazione dell'autonomia della magistratura attraverso una modifica costituzionale che, istituendo una doppia carriera e un doppio Consiglio superiore (partendo addirittura, al fine di aggirare la necessità della riforma costituzionale, da un doppio concorso, come è stato ipotizzato recentemente), rischia di far dipendere il pubblico ministero dal potere esecutivo. In ogni caso, un simile pubblico ministero resterebbe ancora più lontano da quella cultura della giurisdizione che dovrebbe accomunare magistratura e avvocatura; nascerebbe una autonoma cultura dell'indagine e dunque dell'accusa fondata su principi ed elementi non necessariamente coincidenti con quelli sino ad oggi seguiti, anche se in maniera non soddisfacente. Anche molti avvocati sono, infatti, perplessi nell'idea di creare una figura di magistrato che, dall'inizio alla fine della sua carriera, sia destinato e dedicato solo al ruolo di pubblica accusa. Molti ritengono che una migliore cultura e formazione si acquisisce solo se uno stesso soggetto ricopre tutti i ruoli del processo. In astratto meglio ancora sarebbe se il magistrato svolgesse prima il ruolo di difensore, poi di accusatore, poi di giudicante, e poi ruotasse ancora. Chi ha giudicato, sarà anche più prudente nell\'accusare (nel chiedere un rinvio a giudizio). Chi ha accusato e difeso sarà più consapevole nel giudicare. Negli USA, ad esempio, gli avvocati per un periodo sono chiamati a svolgere il ruolo di procuratori dell'accusa, poi tornano a fare gli avvocati difensori. Il tema sollevato dai promotori è reale e concreto. Chi sostiene il ruolo dell'accusa, in un giudizio, ha una posizione privilegiata, che potremmo definire come una sorta di accesso agevolato al convincimento del giudice giudicante. I promotori ritengono che sia legato ad uno spirito di corpo, che si crea per il passaggio da una funzione all'altra, e dunque al senso di colleganza. Non è così. Il nodo è che il PM è un soggetto pubblico. Quando decide di \'accusare\' si presume lo faccia nell\'interesse pubblico. In sostanza, è vero che nel processo vi può essere un pregiudizio favorevole alla tesi del PM. Ma questo nasce dal fatto che il PM accusa in buona fede, perché ne è convinto, perché ha trovato la (sua) verità, giusta o sbagliata che sia, ma nel pubblico interesse, mentre l\'avvocato rappresenta una parte privata (che si difende nel proprio interesse). Ecco perché nel giudizio la parte pubblica è avvantaggiata, perché un giudizio *super partes*, quando inizia il processo, c\'è già stato. Ed è quello del PM che ha deciso di accusare l'imputato. Questo pregiudizio non si potrà mai eliminare. È presente anche nel giudizio civile o nel giudizio amministrativo presso il TAR. Il problema è che una parte è pubblica, ed il difensore della parte pubblica agisce (o si presume agisca) nell\'interesse collettivo. Il pregiudizio positivo resta, nel giudizio civile o amministrativo, anche quando la parte pubblica, ad esempio l'ente locale, è difeso da un avvocato privato Ciò che rileva, è che nulla potrà mutare questa situazione, e certamente non il fatto di separare le carriere. Per mutare questo pregiudizio positivo all\'accusa, occorrerebbero tali sconvolgimenti, da non essere affatto consigliabili. Sotto altro profilo, la separazione delle carriere non risolverebbe i problemi della giustizia. Si sostiene che la comunanza di carriera e logistica porterebbe come conseguenza un asservimento dei giudici allo strapotere dei pubblici ministeri, mediaticamente molto più forti. Ma ciò non sarebbe impedito se le carriere fossero due. Ed anzi si rischia un'ulteriore sovraesposizione mediatica dei pubblici ministeri, non più intralciati da regole deontologiche (già oggi sovente violate), che finirebbe per pesare, anche a livello inconscio, sui giudici, premuti dall'opinione pubblica. Ciò che deve essere garantito è che tutti i magistrati, ed anche gli avvocati, partano da un comune terreno di "gioco", una condivisa visione della giurisdizione. In questo impianto, poi, occorre creare un rigido e serio controllo da parte della magistratura giudicante sull'operato del pubblico ministero. Questo controllo è sovente mancato in questi anni, ma certo non è la separazione delle carriere che lo renderebbe più agevole. Servirebbe, invece, un senso di responsabilità e di vera indipendenza di ogni magistrato, oggi spesso mancante. Un noto penalista, Astolfo Di Amato, ha sostenuto, sulle colonne del *Riformista*, che il condizionamento dell'accusa sulle giurisdizioni, anche su quelle superiori, è enorme, onde il problema non sarebbe quello di «*tenere il pubblico ministero immerso nella cultura della giurisdizione affinché si autolimiti. Occorre, viceversa, creare le condizioni affinché la giurisdizione costituisca un momento di controllo rigoroso e non condizionabile delle attività del pubblico ministero. Ed ecco perché serve la separazione delle carriere*». Se la premessa è giusta, certo non lo è il modo per raggiungere l'obiettivo: il rigoroso controllo dell'attività del pubblico ministero ben può, e anzi deve, essere perseguito, ma ciò è perfettamente compatibile con l'attuale sistema di separazione delle funzioni. Occorrerebbe, invece, correggere l'attuale cultura di alcuni pubblici ministeri (che si muovono al fine di acquisire notorietà mediatica e consenso sociale) e rafforzando nei giudici la piena autonomia non solo dai pubblici ministeri (e dagli avvocati, nei rari casi in cui ciò potrebbe succedere) ma anche dalla stampa e dall'opinione pubblica. Si tratta, in definitiva, di approfondire il tema, discuterne collettivamente, valutarne gli aspetti positivi e quelli negativi, operare un bilanciamento tra essi, superando quella contrapposizione, dannosa per i cittadini, Avvocati-Magistrati, che da anni ha contrassegnato il tema, nella ricerca di una comune cultura della giurisdizione.