AUTONOMIA DIFFERENZIATA

a) Premessa


Negli anni novanta del secolo scorso, l'Italia attraversava una grande ubriacatura federalista. A dispetto dei tanti che allertavano sugli enormi problemi, anche pratici, che comportava ampliare la potestà legislativa delle regioni, le forze politiche maggioritarie sembravano attraversate da una vera febbre devolutiva.

La modifica del Titolo V della Costituzione è quindi approvata sul finire della legislatura per volontà della maggioranza, che allora era di centrosinistra. Il testo fu proposto il 19 settembre 2000, e poi votato il 21 settembre nel testo oggi vigente.

L\'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, nel testo riformulato, prevede la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario (c.d. \“regionalismo differenziato\” o \“regionalismo asimmetrico\”, in quanto consente ad alcune Regioni di dotarsi di poteri diversi dalle altre), ferme restando le particolari forme di cui godono le Regioni a statuto speciale (art. 116, primo comma).

L\'ambito delle materie nelle quali possono essere riconosciute tali forme ulteriori di autonomia concernono: tutte le materie che l\'art. 117, terzo comma, attribuisce alla competenza legislativa concorrente; un ulteriore limitato numero di materie riservate dallo stesso art. 117 (secondo comma) alla competenza legislativa esclusiva dello Stato: a. organizzazione della giustizia di pace; b. norme generali sull\'istruzione; c. tutela dell\'ambiente, dell\'ecosistema e dei beni culturali.

L\'attribuzione di tali forme rafforzate di autonomia deve essere stabilita con legge rinforzata: in altri termini, in primo luogo vi deve essere un\'intesa fra lo Stato e la Regione, acquisito il parere degli enti locali interessati, nel rispetto dei princìpi di cui all\'art. 119 Cost. in tema di autonomia finanziaria; successivamente il testo deve essere approvato dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti.

La norma così introdotta non ha avuto attuazione immediata. Con la legge di stabilità per il 2014, il Parlamento ha approvato alcune disposizioni di attuazione dell\'art.116, terzo comma, Cost., relative alla fase iniziale del procedimento.

Dopo i referendum in Lombardia e Veneto del 2017 e la richiesta dell\'Emilia Romagna, queste regioni hanno firmato, il 28 febbraio del 2018, col governo Gentiloni ormai da tempo dimissionario una pre-intesa, relativa a cinque materie specifiche (tutela di ambiente, salute, istruzione, lavoro e rapporti internazionali),

Si prevede per la prima volta per quelle regioni il principio della compartecipazione ai tributi erariali, cioè per la prima volta si prevede che la spesa prestabilita ad esempio per sanità ed istruzione dipenda dalle tasse riscosse in più in una specifica regione. Fino ad oggi, invece, la ripartizione dei fondi fra le regioni viene effettuata in base ai fondi spesi negli anni precedenti (spesa storica); viceversa le regioni che chiedono il trattamento differenziato vogliono sganciarsi da questo criterio generale ed affermare il principio per cui le somme loro erogate devono dipendere da quante tasse pagano i cittadini residenti sul loro territorio.

Sarebbe un passaggio epocale, anche dal punto di vista culturale, ed un enorme successo per il movimento federalista. Infatti si stabilirebbe il principio in virtù del quale il livello dei servizi nella regione non dipende dai 'bisogni' ma dal 'reddito' regionale . Il giudizio dei Giuristi Democratici, su questa innovazione, è ovviamente negativo.

b) Profili problematici


Quer pasticciaccio brutto del regionalismo italiano: così sintetizza Mario Dogliani in uno scritto del febbraio 2019, segnalando che il regionalismo differenziato non è una questione tecnico-amministrativa, ma un processo di capitale significato politico che potrebbe mettere in discussione il principio di eguaglianza tra gli italiani nella fruizione dei servizi pubblici nazionali e nelle condizioni di vita dei cittadini abitanti le diverse regioni, sino alla messa in pericolo dello stesso principio di unità nazionale.

Secondo i commentatori il progetto di autonomia differenziata rischia di violare implicitamente i principi costituzionali di perseguimento dell'eguaglianza sociale (artt.3, 32) e di integrità della Repubblica (artt.5, 117-118-119), di parità e progressività della tassazione (art.53) e di determinazione di principi della funzione legislativa (art.76).

La disposizione dell\'art. 116 comma 3° della Costituzione si intreccia inevitabilmente con il recentissimo contesto storico in cui – a partire dal 2017, anno dei referendum consultivi tenuti in Veneto e in Lombardia, sino ad oggi – si è assistito ad una estensione smisurata dell\'istanza \'autonomistica\' di alcune Regioni, in specie del Nord Italia.

Da un iniziale “richiesta” di trasferimento alle regioni di 5 materie tra quelle indicate dall\'art. 117, si è passati (Veneto e Lombardia in particolare) alla pretesa di deliberare sulla totalità delle materie: non è irragionevole pensare che l\'ampliamento sia dipeso da motivi non di natura costituzionale ma di natura politica, secondo un disegno trasversale che accomuna varie forze.

Testo e contesto, dunque: testo che però “va maneggiato con cura” (cit.), perché l\'art. 116 3° comma come modificato nel 2001 consente applicazioni in conflitto con altre norme dell\'ordinamento costituzionale e con i principi che le dettano, primo fra tutti l\'unità e l\'indivisibilità della Repubblica.

Cosa significa “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite ad altre Regioni”?

Significa innanzitutto che le competenze legislative regionali richieste non possono essere dannose o pregiudizievoli allo Stato o ad altre Regioni, pena il dissolvimento della unitarietà del Paese.

Significa che nessuna “ulteriore autonomia” può prescindere dal rispetto dei diritti fondamentali: uguaglianza tra i cittadini, in primis, in attuazione dell\'art. 3 della Costituzione, che è compito dello Stato tutelare e far osservare; ma soprattutto uguaglianza e solidarietà redistributiva fondano l\'imposizione tributaria disegnata dall\'art. 53 cost. Una lettura estremistica dell\'autonomia fiscale pretende la redistribuzione del prelievo fiscale entro lo stesso territorio, dimenticando che gli individui sono tassati in base alla loro capacità contributiva, non in base alla residenza; e se si restituiscono servizi inerenti ai diritti civili e sociali non in base alle necessità di ciascuno ovunque si trovi, ma su base territoriale, si divide lo stato in aree reddituali e si realizza una secessione iniqua, su criteri di merito del tutto infondati e pretestuosi e a costituzione formalmente invariata.

Ma non è solo un problema fiscale e di risorse, ma anche di competenze e regole: si pensi alla salute, all\'istruzione, al governo del territorio: materie che hanno evidente attinenza con i principi costituzionali fondamentali sui quali si fonda l\'ordinamento dello Stato nella sua indivisibilità.

Occorre quindi una particolare attenzione alla concreta attuazione dell\'art. 116 3° comma: la richiesta deve fondarsi su peculiarità specifiche - non occasionali o di “convenienza” - della regione e può sostenersi se circoscritta e giustificata. E, ancora, può riguardare materie il cui trasferimento alla regione richiedente sia davvero realizzabile.

Come può ritenersi giustificata una competenza legislativa regionale in materie come l\'istruzione se gli articoli 33 e 34, nell\'ottica del principio della libertà di insegnamento e dell\'uguaglianza tra i cittadini, attribuiscono allo Stato il potere di dettare le norme generali in ragione dell\'unitarietà culturale del sistema di istruzione e di ricerca?

Come può ritenersi conforme a Costituzione l\'attribuzione esclusiva alle regioni richiedenti di materie che per loro natura richiamano la potestà legislativa statale, come la tutela e sicurezza sul lavoro, i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione?

Nella dottrina costituzionalistica si è ipotizzato un quadro normativo insostenibile: se Veneto e Lombardia ottenessero l\'autonomia differenziata a cui anelano, si produrrebbe l\'abrogazione dell\'art. 117 comma 3° per due sole Regioni.

L\'ipotesi dimostra quanto sia labile il confine tra attuazione costituzionale e incostituzionale dell\'art. 116 3° comma; sfruttando le potenzialità dell\'art. 116 si potrebbe scardinare l'intero titolo V prevedendo, come nelle intese con Lombardia e Veneto, la trasformazione di buona parte delle competenze concorrenti (art. 117, III comma) in competenze esclusive di solo alcune regioni, sottraendo allo stato anche le tre materie sue esclusive previste dal II comma dell\'art. 117.

Del resto, l\'emergenza sanitaria è stata vissuta da alcune regioni come un\'occasione per promuovere la differenziazione e la gestione autonoma nei propri territori del diritto fondamentale appartenente all\'intera collettività nazionale; ma l\'emergenza sanitaria ha anche scoperto il fianco dei fautori dell\'autonomia differenziata, protagonisti negativi della evidente incapacità di gestire la sanità pubblica e di tutelare il diritto alla salute degli stessi concittadini regionali: se un insegnamento proviene dalla lunga gestione della pandemia è la necessità di gestire il servizio sanitario nazionale secondo criteri coerenti ed efficaci decisi a livello nazionale secondo un percorso democratico trasparente e svincolati sia dalle contingenti maggioranze alla guida delle varie giunte regionali, sia dalle diverse capacità di risposta alla crisi da parte dei servizi locali.

Dopo le “intese” del 2018-2019 tra governo e regioni, la procedura sembra essersi arenata nell'elaborazione di una proposta di una legge-quadro – per opera del ministero dei rapporti con le regioni - la cui bozza presenta significative lacune sulla lettura dell\'art. 116 3° comma (nulla dice su adattamento a specificità locali ed esclusione di alcune materie dove deve permanere una necessaria uniformità), ma soprattutto smaschera la sua debolezza di “tenuta”: una legge cd rinforzata prevista nel procedimento dell\'art. 116 3° comma, frutto dell\'intesa con una regione, potrebbe modificarla, derogarla, abrogare la legge quadro e a nulla sarebbe valsa la sua eventuale approvazione. Il parlamento è così ostaggio delle dinamiche politiche fra stato e regioni e la costituzione rischia di essere stravolta in suoi aspetti fondamentali; spezzare l\'unità del paese sul tema fiscale e aprire a radicali differenziazioni di competenze su istruzione e sanità, per tacer d\'altro, vuol dire dissestare buona parte dell\'impianto costituzionale ad opera di una legge ordinaria vincolata ad un accordo politico con delle regioni. Anche per tali ragioni la proposta non è stata presentata in Parlamento entro la scadenza della legislatura nel settembre 2022.

Ciò che appare evidente in questo contesto è che, ad oggi, nessun serio coinvolgimento è stato avviato con i soggetti direttamente interessati alla vicenda costituzionale del regionalismo differenziato: l\'opinione pubblica e il Parlamento.

Senza l\'avvio di questo confronto, ogni proposta di attuazione dell\'art. 116 3° comma rischia di restare appannaggio di limitati centri istituzionali che certo non rappresentano la comunità nella sua espressione nazionale.

L'autonomia regionale differenziata verrebbe attuata a scapito anche delle autonomie locali e degli enti di prossimità, le istituzioni più vicine alla cittadinanza, in quanto le esproprierebbe di alcuni poteri a favore di nuovi “carrozzoni” centralizzati e inefficienti, questa volta però a livello regionale. In particolare, sarebbe soppressa l\'universalità dei diritti, trasformati in beni di cui le Regioni potrebbero disporre secondo il reddito dei loro residenti, per poter usufruire dei quali, nella quantità e qualità necessarie, non basterebbe essere cittadini italiani, ma esserlo di una regione ricca.

I c.d. LEP, ossia i livelli essenziali delle prestazioni non potrebbero né prevenire né impedire la frammentazione del paese derivante dall'autonomia differenziata. Attengono infatti al livello del servizio, e non all'organizzazione dei poteri pubblici che lo forniscono. La prova si trae dai LEA, equivalente sanitario dei LEP, che non hanno evitato il sostanziale dissolvimento del servizio sanitario nazionale.