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DEMOCRAZIA DIGITALE

a) Premessa. Dal divario digitale infrastrutturale al divario digitale sociale


*“Il massimo del tempo della mia vita l'ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. Ne sono contento, perché l'editoria è una cosa importante nell'Italia in cui viviamo”:* a distanza di quasi mezzo secondo da questa frase, pronunciata da Italo Calvino durante un'intervista per “Mondoperaio”, è lecito domandarsi cosa avrebbe pensato il suo autore della rete - e dei social in particolare- a cui ciascuno di noi dedica *il massimo del tempo* della propria vita moderna.

La lettura cartacea ha repentinamente lasciato il passo a quella digitale, allargando indubbiamente i nostri confini e le nostre conoscenze ed entrando sempre di più, sempre di più, nel nostro quotidiano. Il *web 3.0* - ossia quello inclusivo dei *walled garden* dei social network – ci ha alleggerito (*sic*!) la vita fornendoci - *brevi manu -* le notizie direttamente all'interno dei social stessi senza doverle più andare trovare singolarmente, intenzionalmente e faticosamente altrove. Siamo sempre connessi e lo saremo sempre di più, specie grazie a buona parte del *recovery plan* dedicato al digitale. Il passaggio dalla scarsità all'abbondanza delle informazioni è stato repentino, ingrassando oltremodo la nostra mente affetta da una bulimia del sapere; non riusciamo più a comprendere, ad assorbire, a valutare e a decantare. Tale condizione ci ha drogati (in)consciamente rendendoci *tuttologi del sapere*: siamo diventati medici, avvocati, politici, chef, scienziati, giudici, comodamente dal divano di casa, elargendo tutto il nostro sapere sconfinato attraverso i polpastrelli di una mano.

Questo contributo intende esplorare “il mondo nuovo della rete” alla luce delle recenti pronunce giurisprudenziali e disposizioni normative, nel tentativo di predisporre una “cassetta degli attrezzi” che abbia una fusa valenza su due versanti: tutela degli utenti e responsabilità delle piattaforme.

b) La rete una, sola ed unica piattaforma comunicativa di massa


La *libertà dell'informazione*- quale punto di contatto tra le libertà costituzionalmente contenute nell'articolo 15 e 21 della Costituzione- ha conosciuto nella prima età della rete la sua massima ed estesa espressione. In tale formula comunicativa le due libertà (manifestazione del pensiero e forma di comunicazione) si sono, per la prima volta, unite in maniera indistinta a differenza del passato, in cui a ciascun mezzo di comunicazione corrispondeva ad un servizio ben indentificato. Ciò è reso possibile grazie al processo di convergenza *crossmediale*, che ha abilitato ciascuno di noi a utilizzare un unico mezzo (la rete) per la realizzazione di infiniti servizi (posta elettronica, chiamate, messaggi, video, condivisione di contenuti).

Il 2020 sarà anche ricordato come l'anno di svolta di tale processo, a causa del forzato isolamento domestico dettato dalla pandemia. I dati di utilizzo di internet in Italia rilevano che, nel mese di settembre 2020, ben 42 milioni di utenti medi giornalieri hanno navigato in rete per un totale di 59 ore mensili a persona (cfr. il documento “*Le infrastrutture di comunicazione mobile e la banda ultralarga*” realizzato dal Servizio Studi della Camera dei deputati in data 27 gennaio 2021[^24]).

Qualcosa in questi ultimi anni è stato compito per consentire lo sviluppo della banda ultralarga: nuove previsioni per la semplificazione delle procedure relative al dispiegamento delle reti regole (ad opera del d.l. 135/18 che ha modificato il d. lgs. 33/16), maggiori poteri attribuiti ad Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) sulla separazione funzionale e volontaria relativamente alla fornitura all\'ingrosso di determinati prodotti di accesso, con specifico riferimento alle infrastrutture di rete, specifiche misure di semplificazione per il dispiegamento delle reti (d.l. 76/20)- come ad esempio la previsione della SCIA per effettuare gli interventi di scavo, installazione e manutenzione di reti di comunicazione in fibra ottica– e della fibra in particolare presso gli istituti scolastici e ospedali (d.l. 183/20).

Al contempo, resta indubbiamente alto il tasso di divario digitale “infrastrutturale” del nostro paese rispetto agli obiettivi prefissati dall'Unione europea nella Strategia nazionale per la banda ultralarga. La percentuale italiana di connettività ad almeno 100Mbp/s per il 2020 è ben al di sotto dell'obiettivo prefissato dell'85% (siamo ancora al 25% contro una media UE del 60%); così come siamo ancora lontani dal garantire a tutti i cittadini, sempre nel 2020, una connessione a banda larga garantita a 30Mbp/s (al 60% contro il 77% della media europea).[^25] Come ha ricordato il Commissario Antonello Giacomelli «*per l'Italia e il governo è l'ora di un nuovo Piano Bul, perché siamo fermi a quello del 2015, risorse comprese, e nel frattempo molto è cambiato. C'è una risposta da dare sul modello per le aree grigie, ci sono novità straordinarie come il 5G, dove l'Italia è stata la prima sulla sperimentazione della rete legata al posizionamento dei servizi in collaborazione con università e imprese. Ora la strategia complessiva va tarata sul futuro. Il Recovery Plan è un'occasione come base di partenza, ma non è una strategia sulla banda ultralarga*»[^26]

Nell'*annus horribilis* la Commissione europea ha pubblicato Comunicazione \“*Bussola digitale 2030: la via europea per il decennio digitale*\”, che ha definito, tra gli altri, anche gli obiettivi di connettività per l\'anno 2030, prevedendo due importanti obiettivi: da un lato garantire una connettività di almeno 1 Gbps per tutte le famiglie europee e dall'altro realizzare una piena copertura 5G in tutte le aree popolate. A distanza di appena un anno, la Commissione ha adottato una nuova versione della comunicazione, per conseguire una trasformazione digitale dell'Europea entro il 2030 strutturata su quattro punti cardinali: (1) cittadini dotati di competenze digitali e professionisti altamente qualificati nel settore digitale[^27], (2) infrastrutture digitali sostenibili, sicure e performanti[^28], (3) trasformazione digitale delle imprese[^29] e (4) digitalizzazione dei servizi pubblici[^30].

Dall'analisi degli ultimi dati dell'Osservatorio sulle Comunicazioni dell'Agcom[^31]emerge che, a fine settembre 2020, nella rete fissa, gli accessi complessivi si siano ridotti di circa 130 mila unità rispetto al trimestre precedente e di 390 mila unità a confronto del settembre 2019. Parallelamente, è stato riscontrato un cambiamento delle tecnologie utilizzate: gli accessi alla rete fissa in rame sono passati dall'85% del settembre 2016 al 39% del settembre 2020% (con una flessione di 9,6 milioni di linee); nello stesso periodo c'è stato un importante aumento degli accessi tramite tecnologie qualitativamente superiori: FTTC +7,06 milioni di unità, FTTH +1,16 milioni e FWA (+ 610 mila).

Per quanto concerne la comunicazione mobile. L'Autorità ha certificato la presenza di 104 milioni di sim attive a settembre 2020 (con una flessione su base annua di circa 220mila unità), con una crescita di 2,8 milioni di sim M2M e una riduzione di 3 milioni di sim “solo voce” e “voce+dati”.

Dunque, da un punto di vista strettamente tecnologico la connessione attualmente utilizzata degli italiani è in gran parte *fibra misto rame*, per la linea fissa, e 4G per quella mobile. Se l'Italia ha attraversato il *lock-down* con tali dotazioni infrastrutturali potrà continuare così fino al 2030 “anno obiettivo” della connessione unica ad 1 G/bit al sec per il fisso e del 5G per tutti?

c) 5G, Internet of things e Intelligenza Artificiale


Si ricordi, al riguardo, che tra un anno esatto (30 giugno 2022) il nostro paese, contestualmente al resto d'Europea, avrà il suo secondo *switch off* (il primo, come molti di voi ricorderanno avvenne tra il 2010 e il 2012 con il passaggio dalle trasmissioni televiste analogiche a quelle digitali), ossia il 50% delle attuali risorse frequenziali attualmente impiegate dagli operatori di rete televisivi passerà agli operatori di comunicazioni elettroniche per “allargare” lo spazio del 5G[^32].

La ragione risiede dal cambiamento delle abitudini e dell'uso degli utenti dello smartphone: terzi del consumo di traffico su reti mobili è infatti rappresentato da video, quota destinata ad ampliarsi al 77% entro il 2026; se oggi il consumo medio di ogni utente è di 10 GB al mese, tra cinque anni dovrebbe più che triplicarsi, a 35 GB. A distanza di tre anni dal primo lancio sperimentale del 5G. le stime del report annuale della GSMA prevedono che raggiungerà il 20% delle connessioni globali nel 2025, a fronte del 4% di oggi. Il nuovo standard di comunicazione mobile è ormai presente in tutti i continenti del globo; in alcuni paesi più avanzati come Usa, Corea del Sud e Cina il 4G ha già raggiunto il suo picco di diffusione e comincia il suo declino a vantaggio del 5G, tuttavia un terzo dei consumatori mondiali preferisce ancora attendere i veri vantaggi del 5G prima di migrare, ma altro terzo per ora è deluso, sebbene, occorre ribadire, che il vero [5G stand alone]{.underline} sarà implementato solo nella seconda parte del 2023 (sia a seguito, dello *switch off*, che dalla massiva penetrazione di devices abilitati alla sua ricezione).

Ma, come noto, il 5G non è destinato solo alle comunicazioni interpersonali ma anche ad una moltitudine di altri utilizzi tipici dell'Internet of Things (IoT); in questo campo le previsioni sono che entro il 2030 più di 50 miliardi di dispositivi saranno connessi con tale tecnologia e nel 2023 la spesa mondiale crescerà fino a superare 1.100 miliardi di dollari[^33]. Interessante al riguardo la recente dichiarazione della commissaria europea Margrethe Vestager, Vicepresidente esecutiva, responsabile della politica di concorrenza illustrando i risultati preliminari della indagine settoriale sulla concorrenza nei mercati dei prodotti e servizi relativi all'Internet degli oggetti (IoT) di consumo nell'Unione europea: “*un gran numero di intervistati ha sottolineato che il principale ostacolo allo sviluppo di nuovi prodotti e servizi è la capacità di competere efficacemente con i principali attori del settore consumer IoT, ovvero Google, Amazon e Apple*”.

Altro tema abilitante dal 5G e dalla crescita della rete consiste nell'intelligenza artificiale ossia la tecnologia informatica che sta rivoluzionando il modo con cui l\'uomo interagisce con la macchina, e le macchine tra di loro (M2M). L'intelligenza artificiale permette ai sistemi di capire il proprio ambiente, mettersi in relazione con quello che percepisce e risolvere problemi, e agire verso un obiettivo specifico; il computer riceve i dati, processandoli e rispondendo[^34]. Certo siamo ancora lontani dal mondo immaginario di Steven Spielberg esattamente vent'anni fa quando realizzò un progetto di Stanley Kubrick “*A.I. Artificial Intelligence*” la cui locandina recitava: “*David ha 11 anni. Pesa 27 chili. E\' alto 137 centimetri. Ha i capelli castani. I suoi sentimenti sono veri. Ma lui non lo è.*

Secondo previsioni di ABI Research[^35] il numero di device di tracking IoT raggiungerà quota 68 milioni di unità fra 5 anni: si tratta di un gran numero di prodotti consumer per la casa e il controllo di elettrodomestici o altri sistemi indoor, ma anche apparecchi per il monitoraggio delle condizioni di salute e di controllo personale, soprattutto bambini, anziani e animali domestici che stanno diventando sempre più diffusi.

Grandi passi in avanti sono stati fatti, specie dopo la pandemia e l'esplosione dell'uso dei dati da parte di tutti noi. «*L\'intelligenza artificiale è un must per l\'adozione e la gestione di successo del 5G*»: ha affermati Peter Laurin, *Senior Vice President* e capo di una delle 4 aree globali (Managed Services) di Ericsson aggiungendo “*grazie all\'Intelligenza Artificiale, ci assicuriamo che le reti funzionino al meglio delle loro capacità, garantendo le migliori esperienze per gli utenti finali. L\'Intelligenza Artificiale ci consente di prevedere un calo delle prestazioni di rete prima che questo si verifichi e di intraprendere le azioni necessarie prima che ciò generi un impatto sugli utenti finali*.”, Ma bastano le sue rassicurazioni? Non per la Commissione europea che 21 aprile 2021 ha proposto un regolamento sull'Intelligenza Artificiale intitolato “*il regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce norme armonizzate in materia di intelligenza artificiale e che modifica alcuni atti legislativi dell\'Unione*\” ma che di fatto istituisce un quadro di riferimento legale volto a normare il mercato dell'Unione Europea dell'IA. Ma non solo. Nel medesimo giorno, la Commissione ha anche proposto un \”*Piano coordinato di revisione dell\'intelligenza artificiale 2021*\“, che pone le basi affinché la Commissione e gli Stati membri collaborino nell\'attuazione di azioni congiunte ed eliminino la frammentazione dei programmi di finanziamento, delle iniziative e delle azioni intraprese a livello dell\'UE e dei singoli Stati membri nonché il \”*Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relative alle macchine*\“, che dovrebbe sostituire la direttiva 2006/42/CE del 17 maggio 2006 relativa alle macchine, che garantisce la libera circolazione delle macchine all\'interno del mercato UE ed assicura un alto livello di protezione per gli utenti e altre persone esposte. In particolare, la proposta di regolamento classifica i prodotti che utilizzano completamente o parzialmente il software AI in base al rischio di impatto negativo su diritti fondamentali quali la dignità umana, la libertà, l'uguaglianza, la democrazia, il diritto alla non discriminazione, la protezione dei dati ed, in particolare, la salute e la sicurezza. Più il prodotto è suscettibile di mettere in pericolo questi diritti, più severe sono le misure adottate per eliminare o mitigare l\'impatto negativo sui diritti fondamentali, fino a vietare quei prodotti che sono completamente incompatibili con questi diritti.

Poiché i dati sono alla base dell'intelligenza artificiale diversi sono i punti in comune con il Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati – RGPD): da un lato, infatti, vi sono le restrizioni per gli operatori economici non-UE nella circolazione dei loro beni e servizi nell\'UE dall'altro l'applicazione delle regole a prescindere dal fatto che gli operatori siano stabiliti nell\'UE. Proprio quest'ultimo aspetto – di cui si parlerà più diffusamente nella seconda parte dell'articolo – è uno dei nuovi parametri verso cui la Commissione europea ma anche gli stati membri (si pensi alla normativa italiana in tema di secondary ticketing o divieto di giochi d'azzardo) stanno virando: dal *country of origin al country of destination*.

d) L'improcrastinabile urgenza di abbattere il digital divide sociale


Il vero problema risiede nel *digital divide* sociale. Come ha puntualmente descritto Martin Angioni[^36] nel suo “Amazon dietro le quinte”, il successo di piattaforme digitali come Amazon, decretato dalla continua crescita del numero di clienti, “*è dovuto solo in parte residuale ai prezzi praticati. Molto di più è riconducibile al servizio, alla comodità e soprattutto all'assortimento senza pari*”.

È da tale considerazione che occorre approcciarsi per ridurre il divario sempre più marcato tra nord e sud, tra over 50 e under 30, tra genitori e figli, tra pubblico e privato.

Le quattro categorie rappresentano il cuore del problema digitale sotto il primo versante di cui si discute, ossia quello del rapporto tra piattaforme e utenti.

Il tema centrale non è, dunque, solo garantire una rete (fissa e mobile) ultra veloce, bensì pure quello di prendere consapevolezza dell'aumento di disuguaglianze digitali sociali sempre più marcato specie dopo la pandemia.

Si pensi allo SPID. Nato nel marzo del 2013 da una proposta del deputato Stefano Quintarelli, presidente del comitato di indirizzo dell\'AgID. Per ben 7 anni non è riuscito ad avere una vera diffusione presso la popolazione; si è dovuto attendere il *cashback* di Stato per vederlo decollare istantaneamente: da 6 milioni del marzo 2020 agli oltre 18 milioni del marzo 2021[^37].

Eppure, l'idea di dotare il cittadino di un sistema di credenziali unico per “loggarsi” nei siti (o app) delle diverse amministrazioni pubbliche, invece di essere costretti ad attivare un account per ciascuna era straordinariamente rivoluzionaria e innovativa, era giusta. Tuttavia, mancava di *appeal*. Si badi bene, non che oggi i cittadini abbiano maturato improvvisa fiducia nello Spid, ma lo si possiede semplicemente per un uso (il *cashback*) ritenuto appetibile. Paradossalmente, la postura che lo Stato dovrebbe assumere nei confronti dell'utenza dovrebbe assomigliare – rovesciandone le finalità- a quello seguito dai GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft), ovvero semplicità e funzionalità del servizio offerto[^38].

Sempre per restare sul tema del pubblico, pensiamo all'app IMMUNI. Da giugno 2020 ad oggi è stato scaricato da circa 10.400.000 di utenti (circa il 19% della popolazione). I *download* dell'app, dopo una buona crescita in autunno, all'inizio della seconda ondata, si sono praticamente fermati - dalla fine di ottobre 2020 a metà marzo 2021 sono passati da 9,3 a 10,3 milioni – risultando praticamente inutile nella seconda e terza ondata della pandemia. Il problema vero è che, dei milioni di utenti che l'hanno scaricata, pochissimi l'hanno usata per caricare i loro dati, se positivi, e pochissimi hanno ricevuto notifiche di esposizione. Ecco che ritorna il divario digitale sociale. Se l'utente non è messo in condizioni di utilizzare una app o un servizio digitale non lo usa e basta.

Passando all'ambito didattico, si è tanto dibattuto e si continua a confrontarsi sulla didattica a distanza: la DAD. Da una recente indagine condotta da Ipsos per conto di Save the Children[^39], associazione che più di tutte, dall'inizio della pandemia, segue da vicino la questione, circa il 30% degli studenti arriva a disertare le lezioni virtuali. Si tratta di un dato drammatico. Le cause della dispersione sono legate a una questione economica e classista, i giga e *tablet* forniti dal Ministro per i meno abbienti si sono dimostrati poco funzionali, perché non hanno retto la mole di lavoro. Dall'indagine emerge che la DAD ha peggiorato enormemente la didattica: circa un alunno su due ritiene di aver “sprecato” l'anno, oltre uno studente su tre (35%) si sente più impreparato di quando andava a scuola in presenza e il 35% quest'anno deve recuperare un maggior numero di materie rispetto all'anno scorso. Quasi quattro studenti su dieci sostengono di avere avuto ripercussioni negative sulla capacità di studiare (37%). Gli adolescenti dicono di sentirsi stanchi (31%), incerti (17%), preoccupati (17%), irritabili (16%), ansiosi (15%), disorientati (14%), nervosi (14%), apatici (13%), scoraggiati (13%), in un caleidoscopio di sensazioni negative di cui parlano prevalentemente con la famiglia (59%) e gli amici (38%), ma che per più di 1 su 5 rimangono un pesante fardello da tenersi dentro, senza condividerlo con nessuno (22%). A distanza di un anno dal suo ingresso sono innegabilmente aumentate le disuguaglianze tra gli studenti, con un aumento dei NEET[^40] e una diminuzione della qualità di coloro che riusciranno ad arrivare ugualmente all'università. Su tale questione le responsabilità sono molteplici. In primis legate alla mancanza di una preparazione da parte degli insegnanti nei confronti di una lezione a distanza che richiede un approccio diverso rispetto a quello in aula. Inoltre, vi è pure la responsabilità dei genitori, che si sono trovati impreparati a gestire i propri figli in casa come a scuola, trascurandoli da un lato o aiutandoli oltremodo dall'altro. Infine, c'è una responsabilità dei ragazzi, che sino all'inizio della pandemia associavano spesso il digitale solo allo svago (chat, visione di film, social) e non come strumento di studio.

Come ci ricorda Wolfgang Goethe in Wilhelm Meister “*non c'è nulla di più ragionevole al mondo che saper cavare un vantaggio dalla follia altrui*. La domanda non deve essere solo quando riaprire, bensì come e con quali nuovi strumenti atti a ridurre il divario tra gli studenti.

Un esempio potrebbe essere quello di predisporre un patentino digitale, nipote, ad esempio, del ECDL, *European Computer Drive License*, che certifichi l'abilitazione dell'uso al digitale da parte dell'utente (professore, genitore e studente). Ma soprattutto che renda obbligatorio il passaggio della formazione, della lettura delle istruzioni per l'uso della consapevolezza della macchina che stiamo “pericolosamente” guidando senza una meta.

e) Verso una nuova forma di tutela e responsabilità degli utenti


Insieme all'accelerazione della comunicazione (e delle reti), stiamo assistendo alla sua contrazione racchiusa addirittura in un *tweet* di 120 (allargati, poi, a 240) caratteri. Anzi. Il crescente utilizzo dei nuovi social network (Instagram, Periscope e Tik-Tok) ha da un lato abbassato l'età media degli utenti social –allargando ai più giovani (spesso giovanissimi) l'accesso a tali mezzi di comunicazione - e dall'altro spostato l'asse della comunicazione dalla scrittura (seppur concisa) di un post o di un commento in favore di un video o di una foto. Chissà cosa avrebbe pensato il padre della lingua italiana di questo processo. Di certo torna quanto mai attuale l'incipit di “Le due città” di Charles Dickens “*era il migliore dei tempi, era il peggiore dei tempi*”. L'umanità non ha mai vissuto una stagione della conoscenza così florida e parallelamente tanto piena di costante disinformazione. Il nodo centrale è avere la capacità di gestire tale immenso magazzino di informazioni; la repentina diffusione della rete e dei social non ha permesso una (necessaria) fase di decantazione da parte dello Stato e soprattutto da parte di ciascuno di noi. In questo contesto svolge un ruolo chiave l'alfabetizzazione digitale[^41] (*media literacy*) che deve partire sin dalla giovane età all'interno della famiglia e trovare un costante processo formativo scolastico ed universitario.

Per usare ancora una volta le parole di Italo Calvino, che aveva intuito tale processo già nel 1984, “*alle volte mi sembra che un'epidemia pestilenziale abbia colpito l'umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l'uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l'espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”*[^42]*.*

In tempi più moderni, Gabriella Paolucci, durante un convegno[^43]svolto a Fiesole presso la *European University Institute* sull'attenzione alla contrazione spazio-temporale del mondo contemporaneo, aveva diagnosticato le cause e gli effetti di tale processo: “*L'odierna compressione spazio-temporale ricade – a grande velocità!– sulle forme del pensiero e del linguaggio, sui modi della comunicazione, sugli aspetti essenziali della vita sociale e su tutto ciò che concorre alla riproduzione individuale”*.

Se la sociologia e la letteratura avevano sapientemente anticipato i tempi, profetizzando le ricadute del processo di accelerazione e contrazione del tempo e dello spazio nella comunicazione massmediale, il diritto e la legge non sono stato altrettanto veloci.

Si pensi, per un attimo, ai giornali prima e alla radio e alla televisione in seguito: dietro ogni articolo, trasmissione o programma c'è sempre una “responsabilità editoriale”. E' su simile grande responsabilità che si è, sino ad oggi, basato il successo o l'insuccesso di un giornale o di un canale televisivo. Ma soprattutto è in virtù di essa che si è concretizzata l'altra faccia della libertà di informazione dell'art. 21 della Costituzione: la libertà di ricevere l'informazione[^44]. Come ci ricorda il Prof. Roberto Zaccaria nel suo manuale “Diretto dell'informazione e della comunica zione «(i)*l profilo passivo della libertà di informazione è da tempo evidenziato nei testi costituzionali ed anche in molte Carte internazionali* \[…\]. *In tutti questi testi si mette in primis in risalto, accanto alla libertà di informazione, anche il diritto, strumentale ed essenziale rispetto alla prima, di ricercare le fonti e di accedere alle stesse»*. Siamo arrivati ad avere una *mancanza comune dei pesi specifici delle fonti di informazioni*. La ricerca delle fonti e soprattutto del *fact-checking* - sia da parte di chi fruisce delle notizie che, non di raro, da parte di chi le produce - è passato in subordine rispetto alla incessante produzione delle stesse. Anzi, spesso ci fidiamo più di uno dei primi risultati di una ricerca su Google (alzi la mano chi è riuscito ad andare oltre la seconda/terza pagina) di una qualche di un articolo del Corriere della Sera o di Repubblica. Abbiamo in gran parte perso il desidero di approfondire qualunque notizia, sopraffatti dall'irresistibile voglia di essere protagonisti della scena, con immediati commenti su tutti i temi, assettati da una costante voglia di arricchire il nostro palinsesto a portata di pollice.

Inizia tuttavia a vedersi gli effetti (spesso perversi) di questo divario digitale sociale presso gli utenti anche nei giovani. “*Avevamo cominciato bene, eravamo felici. E poi. \[\…\] Poi la gente ha cominciato ad aver paura*”: questa citazione – di William Golding, Premio Nobel per la letteratura 1983 tratta dal suo romanzo d'esordio “Il signore delle Mosche” – è perfettamente calzante al momento di maturità che stiamo vivendo nei confronti della rete. Ne “Il signore delle Mosche” venivano narrate le vicende di un gruppo di ragazzi britannici bloccati su un\'isola disabitata e il loro disastroso tentativo di autogovernarsi.

*Mutatis mutandis*, finita l'età dell'oro del far web è giunta l'improcrastinabile urgenza di una seria e concreta presa di coscienza della rete. Usiamo spesso la frase navigare in rete; non c'è metafora più azzeccata per rendere questo concetto. Per navigare occorre saperlo fare. Occorre che qualcuno ci abiliti a farlo. Ci fornisca la bussola, le mappe, l'imbarcazione. e quale migliore posto dell'ambiente domestico e della scuola per poterlo fare. Si tratta di un binomio inscindibile dal quale è fondamentale partire. Il vero problema è che i primi ad essere vittime siamo spesso noi adulti che a differenza dei giovani abbiamo la responsabilità, la maturità e la postura per poter correggere ai nostri errori.

Ma se la predetta condizio ne sociale riguarda tutti noi, è altresì vero che la mancanza di una responsabilità *ex ante* delle piattaforme digitali è il tabù da sfatare.

La seconda parte del contributo è, quindi, incentrato sulle piattaforme digitali ed intende proprio approfondire il tema della loro responsabilità, partendo dalla normativa attuale (Direttiva e-commerce), la sua evoluzione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia e di Cassazione sino ad arrivare alle recenti proposte della Commissione europea (DSA e DMA) nel nuovo approccio proposto.

f) L'irresponsabilità delle piattaforme digitali nell'evoluzione giurisprudenziale europea e nazionale.


Analizzato il versante dell'utente finale della rete passiamo ad esplorare le piattaforme digitali, partendo dal regime di responsabilità in ragione della diversa tipologia di attività svolta.

Un primo intervento normativo è rappresentato dalla Direttiva E-Commerce risalente al 2000 (recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. n. 70/03), che ha introdotto una distinzione tra le categorie di soggetti operanti su reti di comunicazione elettronica che, a diverso titolo, prestano un servizio della società dell'informazione.

Grazie a tale Direttiva si è iniziato a prendere in considerazione la (ir)responsabilità delle piattaforme digitali. Si tratta in particolare dei c.d. “intermediari di rete distinti in tre tipologie in funzione delle diverse caratteristiche di attività: semplice trasporto (*mere conduit*), memorizzazione temporanea (*caching*), o memorizzazione (*hosting*) delle informazioni.

Per ognuno di essi è previsto un regime di irresponsabilità, a date condizioni giustificato dal fatto che si tratta di attività di ordine meramente *tecnico*, *automatico* e *passivo*: il che implicherebbe che il prestatore di servizi non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate (Considerando 42 della direttiva).

In un siffatto scenario è lecito, ed anzi doveroso, domandarsi se ha ancora senso parlare di rete libera.

Il limite sino ad oggi riscontrato risiede nella mancanza di una responsabilità editoriale (diversamente dai contenuti radiotelevisivi) da una parte e dalla infinita accessibilità alle risorse dall'altra (contrariamente alle risorse scarse delle frequenze, ad esempio).

Le attuali *regole del gioco* che conosciamo – tutte di matrice europee – sono frutto dei processi di liberalizzazione e di privatizzazione della comunicazione tipici degli anni 80/90 del secolo scorso, che a cascata sono entrate nel nostro ordinamento (si pensi al Testo unico dei servizi di media e al codice delle comunicazioni elettroniche).

Lo stesso legislatore europeo in realtà si pose il problema delle piattaforme digitali agli albori del nuovo millennio, adottando proprio la Direttiva *E-Commerce* 200/31/CE recepita nel nostro ordinamento dal D.lgs n. 70/03. In tale disposizione aveva infatti previsto una generale esenzione di responsabilità *ex ante* da parte del prestatore intermediario (*provider*), ossia “*il soggetto che esercita un'attività imprenditoriale di prestatore di servizi della società dell'informazione offrendo servizi di connessione, trasmissione ed immagazzinamento dei dati, ovvero ospitando un sito sulle proprie apparecchiature*”. Tale figura è stata in tale contesto suddivisa a sua volta in (1) fornitore di accesso (*access provider*), ossia il soggetto che offre al pubblico l'accesso ad una rete (2), fornitore di servizi (*service provider*) quale soggetto che offre al pubblico servizi di comunicazione e/o di trattamento delle informazioni destinati al pubblico, oppure ad utenti e abbonati e fornitore di contenuti (*content provider*), ovvero il soggetto che offre al pubblico informazioni che transitano sulla rete telematica e destinate al pubblico, oppure ad utenti e abbonati.

Più in particolare, l'art. 17 della predetta Direttiva ha introdotto, in favore dei provider, l'*assenza dell'obbligo generale di sorveglianza* che si traduce in una esenzione di responsabilità per i fornitori di servizi, a condizione che non intervengano in alcun modo sui contenuti.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha dato, nel corso degli anni, una chiara attuazione a tali principi, come ad esempio nella nota sentenza Scarlet/Sabam del 2011[^45] in cui è stato affermato che la direttiva *E-commerce* osta ad un'ingiunzione rivolta ad un fornitore di servizio di accesso alla rete Internet di predisporre un sistema di filtraggio di tutte le comunicazioni elettroniche che transitano per i suoi servizi ai sensi dell'art. 15, il quale vieta l'imposizione di obbligo di sorveglianza attiva generalizzata. Così come, in tema di motori di ricerca, la Corte di Giustizia si è pronunciata nel 2010, affermando l'irresponsabilità di Google nell'offrire un servizio di posizionamento connesso al proprio motore di ricerca, rilevando che il suo ruolo fosse meramente tecnico, automatico e passivo.

Un decisivo passo in avanti è stato compiuto dalla sentenza EBay L'Oréal[^46]nel 2011, in cui la Corte ha precisato come non possa considerarsi meramente tecnica, automatica e passiva l'attività dell'intermediario di rete che abbia prestato un'assistenza consistente nell'ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita e nel promuovere tali offerte.

In altri termini, la Corte, precisando che la verifica più stringente circa il suo attivo dell'ISP spetti in concreto al Giudice di rinvio, ha riscontrato comunque che poiché Ebay non fornisce ai suoi utenti un servizio “neutro” bensì una vera e propria assistenza nelle vendite, “*consistente segnatamente nell'ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita di cui trattasi e nel promuovere tali offerte*”, esso “*non ha una posizione neutra tra il cliente venditore e i potenziali acquirenti, ma svolge un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo dei dati relativi a dette offerte*”. Ma l'aspetto forse più rilevante di tale pronuncia consiste nell'invio della Corte agli Stati membri affinché i propri organi giurisdizionali competenti in materia di proprietà intellettuale possano ordinare agli ISP di adottare provvedimenti che contribuiscano sia a far cessare le violazioni di tali diritti ad opera degli utenti, sia a prevenire nuove violazioni.

Più di recente la Corte ha compiuto un altro importante cambio di passo con la sentenza del 3 ottobre 2019 Facebook c/ Eva Glawischnig-Piesczek[^47]adottata nella causa C-18/18, affermando che il divieto per gli Stati, ai sensi della direttiva sul commercio elettronico, di imporre agli intermediari di rete un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano, non riguarda obblighi di sorveglianza in casi specifici come quello di porre fine ad una violazione o di impedire una violazione, in particolare cancellando le informazioni illecite o disabilitando l'accesso alle medesime.

Su tale linea, la Corte di Cassazione[^48], da ultimo, ha compiuto un'ulteriore, e fondamentale, passo in avanti, individuando specifici elementi che permettono di qualificare l'*hosting provider* “attivo” e dunque privo dell'esenzione da responsabilità riconosciutagli in principio dalla legge per i contenuti illeciti “ospitati” sui propri siti: le attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione dei contenuti operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio e, in ogni caso, tutte le condotte volte a completare e arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte degli utenti. Ma soprattutto la Corte ha chiarito che il regime di esenzione di responsabilità *ex ante* previsto dall'art. 16 del D. Lgs. 70/2003 - che attua l'art. 14 della Direttiva 2000/31/CE - soggiace al rispetto di due condizioni: (I) che non sia effettivamente a conoscenza dell'illiceità dell'attività o dell'informazione veicolata e (II) che agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti. Se una o entrambe le condizioni non vengono rispettate l'*hosting provider*, a prescindere dalla specifica qualificazione tra attivo o passivo – non può invocare il regime di esenzione di responsabilità.

g) La nuova disciplina italiana sugli intermediari di Rete: tra secondary ticketing, divieto di pubblicità del gioco con vincite in denaro e platform to business (P2B)


Sulla scia della richiamata giurisprudenza europea e nazionale, in tema di responsabilità degli intermediari di Rete, e per far fronte ai crescenti illeciti amministrativi attraverso la rete Internet, il legislatore italiano ha dotato l'ordinamento nazionale di nuovi strumenti di contrasto del fenomeno del *secondary ticketing* e del *gambling* con vincite in danaro.

*[A) Secondary ticketing]{.underline}*: L'art. 1, comma 545 della legge 2016/232 “*al fine di contrastare l\'elusione e l\'evasione fiscale, nonche\' di assicurare la tutela dei consumatori e garantire l\'ordine pubblico*” ha introdotto una nuova fattispecie di illecito amministrativo, consistente nella “*vendita o qualsiasi altra forma di collocamento di titoli di accesso ad attività di spettacolo effettuata da soggetto diverso dai titolari, anche sulla base di apposito contratto o convenzione, dei sistemi per la loro emissione*”.

L'obiettivo che si è prefissato il legislatore consiste nel contrastare il crescente fenomeno del bagarinaggio di biglietti per eventi di spettacolo, cresciuto a dismisura grazie ad Internet. L'unica eccezione consentita è la vendita di biglietti ad un prezzo uguale o inferiore a quello nominale, effettuata da una persona fisica ed in modo occasionale, purché senza finalità commerciali.

La disciplina del *secondary ticketing* è stata modificata con la l. 145/18, n. 145, che ha introdotto i commi da 545-bis a 545-quinquies alla legge n. 232/2016. Con tali modifiche è stato disposto da un lato che, a partire dal 1° luglio 2019, i titoli di accesso ad attività di spettacolo in impianti con capienza superiore a 5.000 spettatori debbano essere nominali e dall'altro è stata disciplinata la procedura di intermediazione, svolta solo dai soggetti autorizzati (e cioè siti Internet di rivendita primari, box office autorizzati e siti Internet ufficiali dell'evento), attraverso la quale gli acquirenti dei biglietti possono rivendere a terze persone fisiche i titoli acquistati.

Nei casi di violazione dei predetti divieti il legislatore ha previsto (I) l'inibizione della condotta, (II) una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 euro a 180.000 euro, nonché (III), ove la condotta sia effettuata attraverso le reti di comunicazione elettronica, la rimozione dei contenuti, o, nei casi più gravi, l'oscuramento del sito attraverso il quale la violazione è stata posta in essere.

La competenza a vigilare sul rispetto dei predetti divieti è stata attributi all'Agcom, che nel 2020 ha adottato diverse sanzioni pecuniarie[^49] (per un importo di oltre 5.000.000 di euro) ed inibendo la prosecuzione della condotta lesiva.

Il Tar del Lazio ha recentemente confermato l'operato dell'Autorità con le sentenze nn. [3955/2021](https://www.giustizia-amministrativa.it/portale/pages/istituzionale/visualizza/?nodeRef=&schema=tar_rm&nrg=202004987&nomeFile=202103955_01.html&subDir=Provvedimenti) e [4335/2021](https://www.giustizia-amministrativa.it/portale/pages/istituzionale/visualizza/?nodeRef=&schema=tar_rm&nrg=202004883&nomeFile=202104335_01.html&subDir=Provvedimenti) rispingendo i ricorsi promossi da Viagogo e da StubHub, i più grossi operatori digitali del *secondary ticketing*. Il Tar, accogliendo integralmente le difese dell\'Autorità esposte dall\'Avvocatura generale dello Stato, ha rigettato tutti gli argomenti difensivi affermando “*la gestione di un sito web che fornisce in via esclusiva, tramite l\'articolata gestione imprenditoriale evidenziata nella motivazione del provvedimento, servizi finalizzati – per stessa ammissione della ricorrente – a favorire la conclusione di negozi giuridici che la legge qualifica in linea generale illeciti, escluse le limitate ipotesi sopra indicate, [non possa essere considerata neutrale rispetto al disposto normativo, non potendo essere assimilata a quella di un “trasportatore” ignaro del contenuto della merce trasportata, come infondatamente argomentato da parte ricorrente]{.underline}*” (enfasi aggiunta).

Si tratta di due pronunce di rilevante importanza in quanto, da un lato confermano la costante impostazione giurisprudenziale in tema di *hosting provider* sancita più di recente dalla Corte di cassazione (Cass. Civ. Sez. I, 19 marzo 2019, n. 770) sulla scia di quella europea (Corte Ue, C-324/09, L\'Orèal c. eBay e C-236/08, Google c. Louis Vuitton) e, dall\'altro, supera l\'arresto del Consiglio di Stato (sentenze nn. 4359/19 e 1217/20) sull\'identificazione del ruolo delle piattaforme di intermediazione - tra i quali Viagogo e StubHub – quali hosting provider passivi, in considerazione dell\'attività effettivamente svolta dalla piattaforma non «*consistente nella mera “memorizzazione di informazioni”».*

*[B) Divieto di pubblicità del gioco con vincite in danaro]{.underline}*. L'articolo 9, comma 1, del decreto-legge 87/18 convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2018, n. 96 ha introdotto un divieto generalizzato di pubblicità concernente il gioco a pagamento effettuata su qualsiasi mezzo di comunicazione. Inoltre, a partire dal 1° gennaio 2019 detto divieto è stato esteso anche alle sponsorizzazioni di eventi, attività, manifestazioni, programmi, prodotti o servizi e a tutte le altre forme di comunicazione di contenuto promozionale, comprese le citazioni visive e acustiche e la sovraimpressione del nome, marchio, simboli, attività o prodotti la cui pubblicità. Restano lecite, invece, le pubblicità afferenti le lotterie nazionali a estrazione differita, le manifestazioni locali e i loghi sul gioco sicuro e responsabile dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli.

In caso di inosservanza a tali divieti è stato previsto a carico del committente, del proprietario del mezzo o del sito di diffusione o di destinazione e dell'organizzatore della manifestazione, evento o attività, l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di importo pari al 20% del valore della sponsorizzazione o della pubblicità e in ogni caso non inferiore, per ogni violazione, a euro 50.000. Anche in questo caso, la competenza a monitorare sul rispetto di tale norma è stata attribuita all'Agcom, che nel 2020 ha avviato la propria attività irrogando svariate sanzioni ai diversi soggetti sopra individuati, tra cui Google[^50] .

Anche il gioco con vincitore in danaro ha subito dei cambiamenti importanti durante il lockdown: «*La chiusura delle sale fisiche per il gioco d\'azzardo legale durante il lockdown ha dato luogo ad un parziale spostamento dei consumi verso altri canali non soggetti alle restrizioni, in particolare verso l\'offerta a distanza e l\'online vero e proprio\”. E \”non può escludersi che una parte del maggior consumo online possa essere intercettata - attraverso siti clandestini - dall\'offerta illegale che in questo settore era già presente e in ascesa*». Si tratta di un piccolo estratto della relazione presentata il 15 giugno 2021 dal comitato della Commissione parlamentare d\'inchiesta sulle mafie[^51] che ha monitorato le attività delle organizzazioni criminali nel periodo dell\'emergenza sanitaria[^52].

Sul tema, il Senato ha di recente deciso di costituire una specifica Commissione parlamentare di inchiesta sul gioco illegale e sulle disfunzioni del gioco pubblico composta da venti senatori, nominati dal Presidente del Senato su proposta dei Gruppi parlamentari. Tra i diversi compiti della Commissione si segnala, in questa sede: (1) l'analisi delle condizioni complessive del settore del gioco pubblico; (2) l'efficacia della disciplina pubblica in relazione alla tutela dei soggetti più deboli, al contrasto della diffusione del disturbo da gioco d'azzardo (DGA), alla gestione delle concessioni nonché alla tutela della correttezza dell'offerta di gioco e del rispetto della concorrenza tra gli operatori; (3) l'individuazione delle dimensioni del gettito erariale e le dimensioni complessive del comparto, con particolare attenzione ai settori produttivi impegnati nella produzione, nella commercializzazione e nella gestione degli apparecchi da intrattenimento, nonché nella produzione e gestione del settore delle scommesse e delle lotterie istantanee; (4) l'efficacia del sistema di regolazione e di controllo con particolare riferimento al contrasto del gioco illecito e illegale.

*C) La responsabilità ex ante degli hosting provider.* Le due nuove discipline di illeciti amministrativi sopra descritti rivestono un rilevante impatto proprio nei confronti dei soggetti intermediari della rete. Per la prima volta, infatti, viene prevista una responsabilità *ex ante* piena da parte degli *hosting provider* a prescindere dalla propria qualificazione quelle attivo o passivo. Come abbiamo visto, infatti, una delle (due) condizioni per poter invocare l'esenzione di responsabilità da parte delle piattaforme consiste nel fatto che l'*hosting provider* non venga effettivamente a conoscenza dell'illiceità dell'attività o dell'informazione fornite da un destinatario del servizio. La conoscenza di tale illiceità implica che non si tratta di una responsabilità oggettiva o per fatto altrui, ma di responsabilità del prestatore del servizio per fatto proprio colpevole mediante omissione, ovvero per non aver impedito la protrazione dell'illecito (rimuovendo le informazioni o disabilitando l'accesso). Infine, è interessante notare che sia le sanzioni irrogate in materia di *secondary ticketing* (Viagogo e StubHub) che quella irrogata a Google su pubblicità online del gioco con vincite in danaro hanno riguardato soggetti non italiani ma stranieri.

*D) Le nuove regole per i fornitori di servizi di intermediazione online e per i motori di ricerca online.* Il Regolamento *Platform to business*[^53] ha introdotto delle nuove ed importanti misure di garanzia a favore degli utenti commerciali[^54] nella fruizione dei servizi di intermediazione online e dei motori di ricerca online. Si tratta del primo passo verso una nuova frontiera della regolamentazione dell'attività delle piattaforme contenuta nella strategia legislativa europea.

In concreto, il Regolamento ha previsto una serie di nuove regole nei confronti (I) per i fornitori di servizi di intermediazione online[^55] (categoria molto ampia, in cui rientrano i mercati di commercio elettronico per conto di terzi, come Amazon, eBay o Zalando, gli app store come Google Play, Apple App Store, Microsoft Store, i social media usati a scopi professionali quali ad esempio account Facebook o Instagram utilizzati con finalità professionali da artigiani, e gli strumenti di comparazione dei prezzi come Skyscanner, Trivago o Google Shopping) e per (II) i motori di ricerca online[^56] (categoria che ricomprende sia quelli generalisti come Google sia tematici come TripAdvisor).

A tali soggetti il regolamento vieta specifiche pratiche nocive per lo sviluppo dell'economia digitale come la sospensione degli account, impone l'adozione di termini e condizioni semplici e chiare, l'indicazione dei parametri utilizzati per il *ranking*, la predisposizione di facili sistemi di reclamo e l'introduzione di una procedura di risoluzione delle controversie.

Dunque, il rapporto che il regolamento P2B disciplina riguarda da un lato i fornitori di servizi di intermediazione online e per i motori di ricerca online e dall'altro gli utenti commerciali. Da notare che in tale definizione il legislatore ha inteso includere non solo le persone giuridiche, bensì anche quelle fisiche che agiscono nell'ambito delle proprie attività commerciali o professionali (si pensi ad esempio agli influencer). Restano fuori pertanto i consumatori[^57] , ossia gli utenti finali tutelati, invece, dal codice del consumo (la cui competenza è attribuita all'Agcm).

Il legislatore italiano per garantire l'adeguata ed efficace applicazione del Regolamento ha attribuito, con la legge 178/20 (commi 515-517), all'Agcom le nuove competenze attribuendole il potere di regolazione, vigilanza, composizione delle controversie e sanzionatorio nell'ambito della cornice edittale più grave già prevista per le violazioni in materia di posizioni dominanti all'art. 1, comma 31 della l. 249/97 (sanzione amministrativa pecuniaria non inferiore al 2% e non superiore al 5% del fatturato).

Anche in questo caso è estremamente interessante notare che il legislatore ha inteso confermare il principio del *country of destination*: la responsabilità delle piattaforme prescinde dalla sua ubicazione fisica, in quanto si guarda alla residenza o allo stabilimento dell'utente commerciale.

Ciò che conta non è pertanto il luogo entro cui si conclude la transazione, ma il momento nel quale avviene l'incontro: qualora la piattaforma svolga ruolo di effettivo intermediario, allora le sue responsabilità ricadranno nel perimetro della nuova regolamentazione.

h) Le nuove regole per internet: il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA)


Merita, infine, un breve ma importante richiamo al recente pacchetto di riforme presentato dalla Commissione europea a fine 2020, a valle di una lunga consultazione pubblica con tutti gli stati membri, volto a introdurre una serie di nuove proposte legislative tali da proteggere in modo più efficace i consumatori e i loro diritti fondamentali online e rendere più equilibrato il mercato digitale rispetto a quello reale.

Si tratta di due proposte di regolamento, che si rivolgono tanto ai servizi quanto ai mercati digitali diversificando gli obblighi e le tutele in ragione delle diversioni di tali soggetti. L'obiettivo che si pone il legislatore europeo è, infatti, quello di garantire un accesso sicuro alla rete per tutti gli attori e un reale affidamento alle notizie che leggiamo al fine di eliminare l'attuale squilibrio tra la doppia realtà online e offline.

Gli strumenti previsti sono particolarmente innovativi rispetto a quelli attuali poiché introducono un processo di armonizzazione massima e puntali obblighi *ex ante*, sorveglianza più attenta e delle sanzioni espresse e rilevanti.

DSA e DMA costituiscono, pertanto, la risposta europea ai radicali cambiamenti globali derivati delle piattaforme digitali: motori di ricerca, piattaforme di intermediazione digitali, social network e così via. L''obiettivo sarebbe quello di arrivare ad una adozione dei due Regolamenti nella primavera del 2023. Tutto dipenderà dal ruolo che il Parlamento europeo e il Consiglio dell'Unione europea svolgeranno durante le fasi del cosiddetto trilogo.

A distanza di un ventennio dall'emanazione della direttiva e-commerce, la Commissione europea ha finalmente adottato una proposta di Regolamento relativo a un mercato unico dei servizi digitali (legge sui servizi digitali) e che modifica la predetta direttiva 2000/31/CE (Digital Services Act DSA)[^58] .

Come ha recentemente affermato il Presidente dell'AGCOM, Giacomo Lasorella[^59] “*Il Digital Service Act dell'Ue punto di partenza del nostro operato*” con il chiaro obiettivo di realizzare quella convergenza per la quale l'Autorità è stata istituita ossia la regolazione del digitale che può attuarsi solo in un quadro europeo.

La proposta mira a migliorare la sicurezza degli utenti online e la protezione dei loro diritti fondamentali in tutta l'Unione. In altre parole, il nuovo approccio proposto dalla Commissione non guarda, come in passato, soltanto al mercato unico e alla circolazione dei servizi digitali, ma anche alle nuove sfide per la tutela dei diritti fondamentali e della democrazia nella società dell'informazione.

Le piattaforme online nel corso degli ultimi vent'anni hanno, infatti, definitivamente rivoluzionato il mondo delle comunicazioni e degli scambi commerciali, aprendo nuove prospettive ad una sterminata platea di soggetti; tuttavia, esse sono state e continuano ad essere parallelamente pericolosi canali di diffusione di contenuti illeciti (tra tutti i siti pirata) e di vendita di beni o servizi illegali.

L'obiettivo che la Commissione si è prefissata di raggiungere nel corso del trilogo consiste in un riequilibrio delle parti (piattaforme e utenti), introducendo una serie di nuovi obblighi armonizzati (ragione per cui si è scelto di procedere con un Regolamento e non con una Direttiva) per i servizi digitali a livello dell'UE tra cui segnaliamo: norme per la rimozione di beni, servizi o contenuti illegali online, strumenti di tutela per gli utenti che si vedono cancellati i propri contenuti, specifiche previsioni per consentire il tracciamento degli utenti commerciali nei mercati online, rilevanti e puntuali poteri di verifica sul funzionamento delle piattaforme digitali, una più efficace procedura di cooperazione tra autorità di settore all'interno dell'Unione, una maggiore trasparenza specie per la pubblicità online e i relativi strumenti di posizionamento, nonché obblighi calibrati in funzione delle dimensioni delle piattaforme.

Insieme al DSA la Commissione ha, altresì, adottato un'altra proposta di regolamento relativo a mercati equi e contendibili nel settore digitale (legge sui mercati digitali nota anche Digital Markets Act o DMA)[^60] .

Tale proposta mira più specificatamente ad introdurre una serie di criteri oggettivi per definire le piattaforme online di grandi dimensioni che esercitano una funzione di controllo dell\'accesso. Si tratta di quei soggetti che, grazie alla loro attività di intermediazione, detengono una posizione economica rilevante nel mercato nazionale e in quello paneuropeo.

In questo caso l'obiettivo dell'Unione è quello di introdurre nei vari ordinamenti una armonizzazione massima, fornendo chiare definizioni e vietando le pratiche sleali ivi presenti. Dunque, non si rivolge a tutti i soggetti della rete, ma solo a quei soggetti i quali in ragione del proprio bacino di utenti sono più soventi a ospitare, non di rado, illeciti (basti pensare ai motori di ricerca come Google, social network come Facebook o Instagram, fornitori di servizi di intermediazione online come Amazon o EBay). Altro aspetto non meno rilevante consiste nell'importante presidio sanzionatorio pecuniario previsto, che potrebbe portare ad irrogare multe sino al 10% del fatturato mondiale o, nei casi di recidiva, all'obbligo di adottare misure strutturali, fino all'eventuale cessione di determinate attività nei casi in cui non siano disponibili altre misure alternative altrettanto efficaci per garantire il rispetto delle norme.

Diverso è l'approccio seguito sino ad ora dalla Commissione relativo ai soggetti dominati della rete che in virtù delle loro dimensioni e della loro potenza economica. Come sappiamo, gli attuali strumenti sono solo di natura pecuniaria pur rilevante e tuttavia di certo non così forti da scarnire davvero i poteri dei GAFAM. Ecco, allora, il nuovo approccio seguito: evitare che si arrivi ad una sanzione, smontando le varie posizioni dominati da parte dei big della rete.

In questo scenario un ruolo centrale sarà svolto dalla cd co-regolamentazione che, come ci ricorda il Commissario Laura Aria[^61] «*fornisce un collegamento giuridico tra l'autoregolamentazione e il legislatore nazionale, in conformità delle tradizioni giuridiche degli Stati membri. Nella co-regolamentazione le parti interessate e il governo o le autorità o gli organismi nazionali di regolamentazione condividono il ruolo di regolamentazione. Il ruolo delle autorità pubbliche competenti comprende il riconoscimento del regime di co-regolamentazione, l'audit dei suoi processi e il suo finanziamento. Ciò dovrebbe consentire l'intervento statale qualora i suoi obiettivi non siano conseguiti».*

i) Conclusioni


Per ipotizzare qualche sommaria conclusione è necessario fare un *prequel.*

Prima che l'era digitale prendesse il sopravvento, molti interventi normativi tentarono di dare ordine al sistema comunicativo analogico. Con sorti assai alterne.

Mentre nel comparto della carta stampata la legge n. 416 del 1981(variamente novellata, ma rimasta intatta nelle sue fondamenta) mise dei contorni piuttosto significativi al settore, sia in termini di trasparenza proprietaria sia nei confini imposti alle concentrazioni, il campo radiotelevisivo non ha mai assunto una vera fisionomia democratica.

Purtroppo, la non breve stagione del *Far West* dell'etere (divenuta oggi *Far Web*) iniziata dopo la sentenza n. 202 della Corte Costituzionale segnò per sempre la fisiologia del sistema. Quella sentenza, peraltro giusta e storicamente matura, fu emanata nel luglio del 1976. Solo un anno prima la legge n.103 aveva riformato la Rai, spostandone l'indirizzo e la vigilanza dal potere esecutivo al Parlamento (la legge n.220 “Renzi” del 2015 ribalterà la situazione).. La Corte accolse la spinta verso la parziale rottura del monopolio statale, letti mando l'accesso dei soggetti privati solo nell'ambito locale. La stessa Corte, come ribadì anche nel 1988 e nel 1994, evocava l'urgenza di una disciplina organica, che condizionasse la cosiddetta libertà di antenna al varo di un adeguato corpo di regole.

L'assenza di un quadro di certezze fondato su rigorosi diritti e doveri, limiti antitrust e tutele adeguate del pluralismo portò all'anomalia italiana. A quello che taluni commentatori chiamarono il principale disastro latino nel campo. Da simile situazione nacque il fenomeno berlusconiano. Da una televisione via cavo – Telemilano – partì la conquista da parte del *tycoon* di Arcore dell'universo della televisione generalista, Provarono a fermarne la (ir)resistibile ascesa tre pretori nel 1984, i quali rilevarono l'illiceità della interconnessione nazionale tra le diverse stazioni locali che componevano il mosaico di Fininvest, arrivando a chiudere le trasmissioni. Si sollevò una reazione durissima, al grido “*I Puffi, i Puffi*”, che portò il governo allora presieduto da Bettino Craxi a provvedere rapidamente con decreti legge reiterati, diventati la legge n.10 del 1985. Caso unico (salvo il Messico e la Turchia) l'Italia rese possibile ad un unico soggetto di possedere ben tre reti nazionali. La legge n.223 del 1990 (l.Mammì) fotografò infine la situazione, rendendola permanente.

Provò senza successo il centrosinistra dell'epoca dell'Ulivo a limitare il numero delle reti. Fu la legge n.249 del 1997 a metterci mano, subendo – però- una controffensiva ancora una volta demagogica e segnata dal populismo mediatico. Finì con la scialba scelta di immaginare che, a certe condizioni, una rete potesse essere trasmessa via satellite, liberando così risorse terrestri. Persino quell'esile filo fu spezzato dalla grande “controriforma” varata dall'allora ministro Gasparri con la legge n.112 del 2004, recepita poi nel Testo Unico delle Radiodiffusioni del 2005 (decreto legislativo n.177).

Insomma, si determinò una situazione di oligopolio assoluto, declinata nel rapporto tra pubblico e privato come “duopolio” di Rai e Mediaset.

Neppure fu regolato adeguatamente il conflitto di interessi, pervasivo e diffuso. Il testo approvato nel 2004 (l. Frattini, n.215) non risolveva pressoché nulla.

Le novità interessanti da ricordare sono, forse, almeno tre: la costituzione dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni con la legge n. 249 del 1997; la legge n.122 del 1998 sull'obbligo di investimento da parte delle emittenti in opere audiovisive italiane ed europee; la legge n.28 del 2000 sulla “*par condicio*”. Quest'ultima è stata pressoché l'unica medicina rispetto alla frequente lesione delle pari opportunità tra le parti politiche nel mondo radiotelevisivo. Insomma, in assenza di una moderna ed adeguata struttura antitrust, per lo meno si sono limitati i danni. Purtroppo, l'Agcom si è via via indebolita, anche per ragioni ultronee rispetto ai suoi stessi limiti. Che ne è degli anni analogici nel discorso mediatico? Vi è stata la vittoria sul campo del vecchio schermo generalista, onnivoro e arretrato. La comunicazione si fece direttamente politica.

La nascita del cavo fu impedita dall'antico accordo di potere sui rispettivi comparti di egemonia tra Rai e Sip e il progetto del 1994 messo in campo dalla Stet di portare la fibra ottica nell'intero territorio italiano fu spenta dall'enfasi data alle culture della concorrenza. Fu il frutto di un momento di riassetto del quadro degli indirizzi dell'Europa. Ora verosimilmente, di fronte alla conclamata crisi del liberismo, non accadrebbe.

Tutto ciò per segnalare come i problemi della modernità digitale abbiano tristi prolegomeni.

C'è tanto da fare e la stagione che si sta affacciando porta con sé tutte le possibilità per cambiare rotta. La Legge di delegazione europea 2019/2020 finalmente varata un primo ed importante e punto di partenza. Al suo interno vengono recepite ben 38 direttive europee e inserito l\'adeguamento della normativa nazionale a 17 regolamenti europei. Tra le più rilevanti normative europee vi è la nuova Direttiva sui servizi digitali (Direttiva 2018/1808), le due Direttive sul diritto d'autore (Direttive nn. 789/19 e 790/19) nonché la Direttiva che istituisce il codice delle comunicazioni elettroniche (Direttiva 2018/1972). Una vera e propria rivoluzione digitale sta per arrivare.

E' presumibile pensare che entro la fine dell'estate i testi fondamentali (SMAV, CCE e COPYRIGHT) saranno emendati, consentendo dunque all'AGCOM di avviare le relative consultazioni pubbliche prodromiche all'adozione dei singoli interventi normativi previsti. In questo scenario cruciale sarà il ruolo dell'Autorità italiana per le comunicazioni che - come ci ha ricordato la Commissari Prof.ssa Elisa Giomi[^62] – dovrà creare “*le condizioni per la messa a punto di un sistema regolatorio per i nuovi modelli di business digitale che garantisca – lato consumatori e utenti – maggiore controllo sui propri dati e – lato imprese – un trattamento equo e non discriminatorio nei rapporti contrattuali con le piattaforme online”*.

Certo molto dipenderà da quanto riuscì il Governo ad innovare attraverso i decreti legislativi: ossia se si limiterà ad un intervento chirurgico che recepisca pedissequamente le principali novità contenuti nelle direttive di settore oppure se coglierà l'occasione per introdurre nuovi strumenti regolatori tanto per i players tradizionali quanto per i big della rete.

Con specifico riferimento al settore dei media cruciale importanza riveste la *media literacy/education* ovvero l'alfabetizzazione digitale, vero e proprio fulcro centrale del divario digitale sociale.

Solo attraverso una competenza diffusa e condivisa tra i vari attori pubblici (istituti scolastici, università MISE. MIC, AGCOM, Garante *Privacy* solo per citarne alcuni). Fa sperare, al riguardo che l'articolo 4 della legge di delegazione europea (che attribuisce il mandato al Governo per il recepimento della Direttiva SMAV) contenga al suo interno un comma dedicato e che impone “*la promozione dell\'alfabetizzazione digitale da parte dei fornitori di servizi di media e dei fornitori di piattaforme di video-sharing*”. Ecco, tuttavia, a parere di chi scrive, l'alfabetizzazione digitale non è solo un compito da attribuire ai fornitori di media (lineari e non) ma soprattutto dei GAFAM; è con loro che bisognerebbe avviare un percorso, di formazione costante dei propri utenti. Necessario in questo percorso è la parallela formazione da parte della stessa PA, a partire dagli insegnanti - che, come detto, non sono stati preparati, a causa dell'assenza della formazione, a gestire la DAD - dagli impiegati degli enti pubblici locali (dipendenti comunali, delle ASP, della regione etc.) e nazionali. Infatti, se dal recovery plan arriveranno importanti fondi per il digitale è davvero fondamentale che essi siano spesi nella formazione dei soggetti (partendo da pubblici per arrivare ai privati) prima ancora che accrescere la connessione e i servizi digitali. Come ci ricordò il Presidente Pertini nel suo messaggio di fine anno del 1982[^63] “*Il problema del Mezzogiorno non può essere considerato soltanto un problema di quelle regioni: deve essere considerato un problema nazionale se lo si vuole risolvere*.” Si badi bene, è qui che si gioca la vera partita, specie della *questione meridionale*; è dal mezzogiorno che bisogna puntare la lente di ingrandimento ma non solo nelle modalità di spesa dei danari pubblici quanto, lo si ripete, nella formazione all'utilizzo del digitale.

Occorre, quindi, prendere le mosse dalla “*burrasca di distruzione creativa*” ipotizzata dall'economista Joseph Schumpeter che sviluppo nel suo volume “*Capitalismo, socialismo e democrazia*” per regolare con *lenti nuove e diverse* il fenomeno delle piattaforme digitali che non guardi quindi agi strumenti tradizionali sin qui seguiti ma anzi li distrugga in maniera creativa fornendone dei nuovi: «*Il punto essenziale da afferrare è che chi studia il capitalismo studia un processo essenzialmente evolutivo*. *Gli economisti stanno uscendo dallo stadio in cui non vedevano che una forma di concorrenza: quella nei prezzi è \[…\] ma la concorrenza creata dalla nuova merce, dalla nuova tecnica, dalla nuova fonte di approvvigionamento, dal nuovo tipo organizzativo, condiziona un vantaggio decisivo di costo e di qualità e incide non sui margini del profitto e sulla produzione delle ditte esistenti, ma sulle loro spesse fondamenta, sulla loro vita»* (tratto da pag. 78 de “Capitalismo, socialismo e democrazia”).

Per regolare le piattaforme occorre pertanto non pensare solo ai principi tipi della concorrenza, basati essenzialmente, sui prezzi praticati dei big player, ma sulla nuova valuta di scambio divenuta pregiatissima *i dati, i nostri dati*. In concreto, per fare ciò è indispensabile partire da una visione per così dire [glocal: *guardare ai fenomeni della globalizzazione per regolare il locale*]{.underline}. La recente sentenza del Consiglio di Stato ([sentenza n. 2631/2021](https://www.giustizia-amministrativa.it/portale/pages/istituzionale/visualizza/?nodeRef=&schema=cds&nrg=202001825&nomeFile=202102631_11.html&subDir=Provvedimenti)) ha sancito la “non gratuità di Facebook”, chiarendo, per la prima volta, che i servizi offerti dalle piattaforme (le ricerche che facciamo, le mail che inviamo, i video che guardiamo etc.) fruibili senza richiedere alcun denaro non sono affatto gratuiti. Al riguardo, i Giudici di Palazzo Spada hanno affermato che «*le informazioni rese all'utente al primo contatto, lungi dal contenere gli elementi essenziali per comprendere le condizioni e i limiti delle conseguenze che, a fronte della gratuità dei servizi offerti, deriveranno dalla profilazione in termini di indefinibilità dei soggetti che utilizzeranno i dati personali messi a disposizione e del tipo di utilizzo commerciale connesso, lasciano supporre che sia possibile ottenere immediatamente e facilmente, ma soprattutto “gratuitamente” (e per tutto il periodo in cui l'utente manterrà l'iscrizione in piattaforma), il vantaggio collegato dal ricevimento dei servizi tipici di un social network senza oneri economici, [omettendo di comunicare che, invece, ciò avverrà (e si manterrà) solo se (e fino a quando) i dati saranno resi disponibili a soggetti commerciali non definibili anticipatamente ed operanti in settori anch'essi non pre-indicati per finalità di uso commerciale e di diffusione pubblicitaria]{.underline}*».

Scoperto il vaso di pandora per cui è ormai sempre più noto che “*If You Are Not Paying for the Product, You Are the Product!*”[^64], diventa impellente rispondere alle seguenti domande: Quando vale un mio dato? Quanto riesce a cubare un'azienda dai miei movimenti? Quali nuove regole imporre alle piattaforme digitali?

In realtà, come ci ha ricordato Jaron Lanier, informatico, compositore e saggista statunitense, noto per aver reso popolare la locuzione *virtual reality (*realtà virtuale, di cui è peraltro considerato un pioniere): “*il prodotto non siamo noi. E' la possibilità che le piattaforme hanno di cambiare il nostro comportamento*”. Occorre pertanto prevedere, ed in questo i nuovi testi (DSA e DMA) stanno imboccando la corretta direzione, misure diversificate in funzione delle tipologie e delle dimensioni delle aziende OTT.

Dal punto di vista dell'informazione non è più sostenibile per un giornale seguire il nodello di Facebook o Google ma semmai quello di Le Monde. Il quotidiano francese anziché puntare ad una strategia commerciale di contenimento dei costi, anche tramite una riduzione dei giornalisti, ha puntato sulla qualità; il suo direttore, Luc Bronner, ha scritto al riguardo, attraverso Twitter, che fra il 2018 e il 2019 Le Monde ha ridotto del 14% il numero degli articoli (addirittura del 25 per cento nei due anni) e che nel frattempo i giornalisti sono aumentati - oggi sono più di 500 - e hanno più tempo per fare inchieste. Il risultato che è il numero di utenti sul web e sulla carta è aumentato, dell\'11% in ciascun settore.

*Più giornalisti meno articoli uguale più lettori*. Sebbene sembri uno spot da prima Repubblica, sulla scia di \”lavorare meno lavorare tutti\”, in realtà si tratta di una formula controintuitiva perché c\'è una variabile nascosta che la rende comprensibile: la qualità del giornalismo. Più giornalisti, meno articoli uguale più qualità e quindi più lettori. Tale approccio, a ben pensare, è quello che ha seguito con successo, dai grandi media player che specie negli ultimi anni hanno avuto un'enorme fortuna economica puntando proprio sulla qualità (contenuti originali, alta definizione, pluralità di lingue e sottotitoli).

Se errare è umano, perseverare sarebbe diabolico. Davvero. E un'altra stecca comprometterebbe definitivamente l'opera: *L'informazione è la democrazia*.

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