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BENI COMUNI

I beni comuni possono essere qualificati – utilizzando una formula sintetica ed estremamente efficace di James Boyle -, come l' “opposto della proprietà”. Questa definizione negativa di un'idea nuova, infatti, consente di andare oltre il concetto di “funzione sociale” della proprietà privata, così come si legge all'art. 42 della Costituzione. Il “retroterra non proprietario” sotteso ai beni comuni, infatti, è volto a garantire quelle situazioni legate al soddisfacimento delle esigenze e dei bisogni primari della persona costituzionalizzata e a rimettere in discussione il concetto stesso di cittadinanza. I beni comuni intesi come “opposto della proprietà” aprono, quindi, alla questione – tutta politica - di comprendere in che modo questa nuova pretesa di soddisfazione dei bisogni e di accesso ai beni primari che la persona costituzionalizzata porta con sé, possa trovare un riconoscimento positivo nella legislazione ordinaria ovvero a livello primario.

Procedendo a una breve ricognizione dei significati normativi assunti dal lemma “beni comuni”, possiamo partire dagli esiti della “Commissione Rodotà” istituita nel 2007 presso il Ministero della Giustizia, che ha proposto una definizione incentrata sulla relazione funzionale tra determinati beni, i diritti fondamentali e il libero sviluppo della persona. Secondo l'elenco non tassativo stilato dalla Commissione, sono da considerarsi beni comuni: i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l'aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate.

La disciplina dei beni comuni, inoltre, avrebbe dovuto essere oggetto di una specifica armonizzazione normativa con quella già vigente e riguardante gli usi civici; si prevedeva una tutela inibitoria diffusa e una tutela restitutoria in capo allo Stato. Pensata come una riforma che riguardava lo statuto civilistico della proprietà, l'inversione della individuazione della categoria tassonomica dal regime ad una ontologia naturalistica e funzionalistica, lasciava scoperto il tema del soggetto giuridico a cui avrebbe dovuto esserne affidata la gestione e l'amministrazione. Un'altra linea pratico-ermeneutica assai feconda ha interpretato la sussidiarietà orizzontale come chiave di volta per accedere a nuove forme di gestione dei c. d. “beni comuni urbani”, assenti dal dibattito teorico normativo della Commissione Rodotà, sebbene molte esperienze di gestione collettiva di spazi urbani orbitassero nel suo spazio ideale. Secondo la proposta di “Labsus – laboratorio per la sussidiarietà”, trasfusa nel regolamento per la cura e la gestione condivisa dei beni comuni della città di Bologna, ripresa poi da molte altre città, i beni comuni urbani sono quei “beni, materiali, immateriali e digitali, che i cittadini e l'Amministrazione, anche attraverso procedure partecipative e deliberative, riconoscono essere funzionali al benessere individuale e collettivo, attivandosi di conseguenza nei loro confronti ai sensi dell'art. 118 ultimo comma Costituzione, per condividere con l'amministrazione la responsabilità della loro cura o rigenerazione al fine di migliorarne la fruizione collettiva”. Tra le critiche a questa impostazione, c'è quella che ha segnalato la prassi di un abuso della sussidiarietà, che ha deresponsabilizzato le amministrazioni locali e ha prodotto una impostazione sostanzialmente competitiva tra le varie associazioni della cittadinanza attiva poste in concorrenza tra loro per la gestione di pezzi tutto sommato poco rilevanti del territorio.

Partendo da queste critiche, sui beni comuni urbani si sono sviluppate altre proposte, tra cui quella del nuovo istituto dell'uso civico e collettivo urbano, sperimentato a Napoli e seguito da altre amministrazioni locali, ma soprattutto dai movimenti che rivendicano la gestione diffusa dei beni comuni. L'istituto non prevede l'assegnazione in uso esclusivo ad un soggetto individuato da un patto di condivisione (come nel modello sopra citato), ma si compone, da una parte, dell'attribuzione del “diritto di uso comune” di spazi e aree urbane in proprietà pubblica o privata, e dall'altro si qualificano, sulla scia degli usi civici tradizionali, degli specifici organi assembleari come organi di gestione di tali spazi.

La proposta dei Giuristi democratici consiste nel recuperare la sintesi di questi avanzamenti politici in materia, unendo la tutela dei beni comuni come funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della personalità dei cittadini, alla partecipazione nella loro gestione e amministrazione, quale elemento qualificante. In questa ottica, quindi, sarebbe auspicabile un ripensamento ed una riscrittura dell'articolo 43 della Costituzione: questo articolo, infatti, è stato poco considerato, sia a livello teorico che politico, nonostante la grande importanza che ne avevano dato i Costituenti, in quanto avrebbe dovuto svolgere una duplice funzione, garantista ma allo stesso tempo interventista, per quanto concerne l'azione dello Stato nell'economia. Del resto, l'articolo 43 esprime una valutazione di fondo molto importante e cioè che i monopoli privati, o comunque la gestione privata delle fonti di energia e dei servizi pubblici essenziali, ostacolerebbero la realizzazione di quei “fini di utilità generale” che devono essere letti in combinato disposto con l'articolo 3, secondo comma, quindi quale estrinsecazione del principio di uguaglianza sostanziale.

Quello che va approfondito è un ponte di congiunzione tra beni comuni urbani e beni comuni naturali, perché facendo leva sui diritti fondamentali (intesi in senso ampio) e sulla gestione collettiva, si apre una divaricazione tra risorse molto diverse, che non solo non possono essere gestite nello stesso modo, ma che rispondono alla realizzazione di categorie di diritti molto diversificate. In virtù dell'indissolubile legame che connette beni comuni e dignità della persona, il loro accesso non può essere escluso in base a criteri di disponibilità economica, ma dovranno semmai caso saranno alcuni aspetti relativi alla loro gestione a dover essere segnati in chiave partecipativa, attraverso procedure istituzionali che coinvolgano la platea dei loro fruitori ovvero loro rappresentanti speciali. Esistono poi altri beni in grado di garantire il soddisfacimento di diritti che arricchiscono il catalogo di quelli fondamentali, in particolare in direzione di quelli sociali e civili. Normalmente appartengono alla categoria dei beni pubblici e privati, e in questi casi assolvono tali funzioni secondo logiche di servizio oppure di domanda e offerta; in alcuni casi però anche questi beni possono essere ripensati come beni comuni.

Ciò accade quando vengono percepiti da una collettività ampia come propri, ma non in un senso proprietario né di appartenenza ideale o territoriale, bensì comunitario: ciò si traduce nella concreta disponibilità del bene per un utilizzo e una gestione diretta secondo regole stabilite, attraverso procedure determinate dagli stessi utilizzatori. Il valore di questi beni comuni non risiede soltanto nei diritti che sono in grado di soddisfare, ma nel sistema relazionale che permette prima l'individuazione, a volte una vera e propria scoperta, di bisogni e desideri diversi, e poi l'attivazione mutualistica e cooperativa per affrontarli.

In questo caso i beni possono essere resi comuni quando viene valorizzato questo processo vitale per la democrazia, per cui si forma una comunità che, più che di un bene in sé, si prende cura in forme reciproche e solidali dei bisogni che essa è messa in condizione di esprimere.

Al riguardo, ci sembra opportuno precisare come la nostra idea di beni comuni non sia soltanto da considerarsi come “l'opposto della proprietà”, ma anche come “l'opposto della sovranità”: infatti, se si tratta di cambiare paradigma giuridico ed economico, se si tratta di superare l'individualismo proprietario e le incrostazioni della proprietà codicistica, allora si tratta anche di far emergere i legami sociali che sono sottesi ai beni primari a cui ogni singola persona, a prescindere dal fatto che sia o meno cittadino/a, deve necessariamente accedere. In questa ottica, “comune” non può essere sinonimo di “comunitario”, almeno non nella declinazione di comunità organica e chiusa, ma aperta: se non si assume consapevolezza anche di questo ulteriore mutamento di paradigma, il rischio è quello di utilizzare una formula nuova per reintrodurre nell'ordinamento “chiusure” vecchie, connesse all'appartenenza originaria di un determinato gruppo sociale rispetto a determinati beni.

Dal nostro punto di vista, quindi, la logica anti-sovrana insita nei beni comuni, produce una prassi rivendicativa e conflittuale nei confronti delle pretese speculative e di sfruttamento delle risorse naturali da parte del neo-liberismo, il cui esito ultimo - in termini politici - è l'approdo ad una “condizione istituzionale di indifferenza rispetto al soggetto che risulta essere il titolare formale” del bene fondamentale in questione, per utilizzare le parole di Rodotà. Se i beni comuni, in sintesi, appartengono a tutti e a nessuno, se tutti possono accedervi e nessuno può vantarvi diritti esclusivi, allora i valori che essi catalizzano non sono soltanto oppositivi all'individualismo proprietario, ma valorizzano i legami sociali in una logica egualitaria e solidaristica, necessariamente anti-sovrana.

5.beni_comuni.txt · Ultima modifica: 2024/12/16 16:54 da 127.0.0.1