REDDITO DI CITTADINANZA E RIASSORBIMENTO DELLA DISOCCUPAZIONE
a) Premessa
L'introduzione nel nostro ordinamento di un “reddito di cittadinanza”, in concreto destinato anzitutto, anche se non esclusivamente, a disoccupati e inoccupati apre una nuova e probabilmente insperata, o comunque non pienamente valutata, prospettiva di una lotta alla disoccupazione finalmente vittoriosa.
Invero, nella corrente opinione e considerazione, il reddito di cittadinanza costituisce essenzialmente una misura di redistribuzione del reddito con secondari, e per lo più solo sperati, effetti occupazionali laddove invece – ed è quanto cerchiamo di dimostrare con questa nota – consente di redistribuire insieme, e con la stessa intensità e certezza, reddito e occupazione, a patto di saper costruire nuove e positive correlazioni tra concetti ed istituti.
La redistribuzione dell'occupazione costituisce una via obbligata per rispondere in tempi brevi alla domanda: “cosa si può fare qui e subito per ridurre drasticamente la disoccupazione giovanile?” Si porrebbe così rimedio in tempi brevi, e non medio-lunghi o lunghissimi, al dramma sociale della mancanza di lavoro, continuativamente aggravata anche dal progresso tecnologico, senza peraltro negare in alcun modo la contemporanea, parallela necessità di investimenti e politiche economiche che comportino, in progresso di tempo, un aumento assoluto del fabbisogno di forza-lavoro.
La possibile sinergia tra reddito di cittadinanza ed incremento occupazionale sembra peraltro essere sfuggita, fino ad ora, sia ai detrattori che ai sostenitori e promotori dello stesso reddito di cittadinanza ed, invero, i “detrattori” li considerano addirittura concetti agli antipodi, vedendo nel reddito di cittadinanza un istituto essenzialmente assistenziale, di mero trasferimento di reddito verso strati della popolazione certamente poveri e disagiati, ma anche sospettati o indiziati di pigrizia, di tendenza al parassitismo sociale e addirittura di probabili comportamenti simulatori e truffaldini.
Questo ingiusto e pregiudiziale atteggiamento ha in qualche modo impressionato anche i proponenti e sostenitori del nuovo istituto che hanno assunto una posizione, per così dire, “difensiva”, condizionando la percezione del reddito di cittadinanza ad una lunga serie di requisiti ed anzitutto alla soggettiva disponibilità del disoccupato percettore ad accettare, a pena di perdita del beneficio, offerte di lavoro da parte degli uffici ed organismi pubblici operanti nel mercato del lavoro.
Ma il sistema pubblico di regolazione di questo mercato ha sempre dato pessima prova nel procurare ai disoccupati posti di lavoro con la conseguenza che, a parte le intenzioni, e le “grida” circa l'obbligo di accettare le eventuali offerte, resta altamente probabile che per mancanza in concreto di offerta non si vada al di là di una, comunque positiva, misura anti-povertà. Ed invece alla fine, a ben pensarci, con la stessa spesa pubblica si potrebbe ottenere molto ma molto di più, e cioè un lavoro vero per i disoccupati/inoccupati e inoltre parallela riduzione del “tempo di lavoro” con conseguente aumento del “tempo di vita”, per un numero di lavoratori già occupati quadruplo di quello dei disoccupati che verrebbero assunti. La via è essenzialmente quella dei contratti di solidarietà espansivi, che tra breve compiutamente illustreremo.
Occorre, a nostro avviso, adottare questo punto di vista: una volta introdotto nel nostro ordinamento il reddito di cittadinanza, con il conseguente stanziamento nel bilancio statale di una somma sicuramente ingente, il legislatore, senza accorgersene, o quasi, ha anche felicemente creato la provvista per finanziare, senza spese aggiuntive, un reale aumento del numero degli occupati.
Il punto è semplicissimo, addirittura lapalissiano, ma decisivo: ogni posto in più che venisse creato dalla volontaria riduzione di orario accettata da 4 lavoratori già in forza comporterebbe un reddito di cittadinanza in meno da pagare al disoccupato così assunto, il quale godrebbe non già di un sussidio ma di un lavoro vero e di un vero reddito da lavoro normalmente più alto del sussidio stesso.
Tutto il problema di politica sociale e legislativa si riduce, insomma, al riuscire a creare un nuovo posto di lavoro spendendo lo stesso importo che si spenderebbe per corrispondere il reddito di cittadinanza a quel soggetto se restasse disoccupato o inoccupato.
Onde evitare confusione, occorre anzitutto marcare la distanza tra la via che indichiamo della redistribuzione del lavoro e quella che il legislatore ha, invece, prospettato come relazione tra reddito di cittadinanza e crescita occupazionale: l'idea cioè di destinare la parte del reddito di cittadinanza, ipoteticamente in godimento ad un disoccupato, al datore di lavoro che lo assuma, così realizzando un aumento netto del monte ore lavorative della sua azienda.
Vedremo nel paragrafo seguente, spiegando in sintesi la formula (o ricetta) dell'operazione, come ciò sia perfettamente possibile.
b) Formule (o “ricette”) per l'occupazione a confronto. i contratti di solidarietà espansiva.
La via ora ricordata, attraverso cui il legislatore vorrebbe legare il reddito di cittadinanza alla crescita occupazionale, è quella di incentivare direttamente i datori di lavoro all'assunzione, promettendo loro l'importo mensile del reddito di cittadinanza per il tempo di residuo godimento da parte dell'ex-disoccupato ora neo-assunto. Tale via è certo apprezzabile, pur reiterando una tradizionale tipologia di incentivo occupazionale (“soldi pubblici a chi assume”), ma i suoi effetti non potranno che essere limitati. La ricordata misura, infatti, presuppone pur sempre che il datore di lavoro abbia bisogno di forza-lavoro “in più” ossia che sussista nell'azienda un fabbisogno occupazionale superiore rispetto al passato.
Invero, nessun datore di lavoro assume se non ha necessità di lavoro in più, ancorché il posto di lavoro sia in parte “pagato” da contributi pubblici.
La via che indichiamo è diversa, senza escludere quella ora ricordata, perché non presuppone un nuovo ulteriore fabbisogno di ore lavorative, in quanto misura di tipo redistributivo ed i nuovi posti di lavoro, per così dire, “si creano e si pagano da sé” utilizzando la stessa provvista di denaro pubblico stanziata per il reddito di cittadinanza.
L'incentivazione pubblica costituita dal reddito di cittadinanza, invero, va intelligentemente utilizzata in modo, per così dire, “indiretto” o “di sponda”: occorre destinare un importo equivalente a quello del reddito di cittadinanza - che quel disoccupato/inoccupato avrebbe percepito - a quattro lavoratori, già occupati, i quali volontariamente accettino di ridurre la loro settimana lavorativa da cinque a quattro giornate, così “aprendo uno spazio” per l'assunzione di quel disoccupato/inoccupato e guadagnando per sé un giorno libero in più alla settimana.
L'importo che sarebbe stato destinato all'erogazione di un singolo reddito di cittadinanza dovrebbe appunto compensare, invece, quei quattro lavoratori “riducenti orario” della ovvia perdita salariale (di 1/5) conseguente alla riduzione dell'orario lavorativo da 5 a 4 giorni settimanali.
Lo strumento negoziale da usare per questa operazione è il contratto di solidarietà espansiva, previsto oggi dall'art. 41 D. Lgs. n. 148/2015, che è un accordo sindacale aziendale nel quale tutta la vicenda può essere convenientemente negoziata e pattuita nei particolari e che è perfettamente invocabile in giudizio nel caso di inadempimenti.
Con il contratto di solidarietà, come è noto, si riduce l'orario di lavoro di un certo numero di dipendenti già in forza: in quelli cd. “difensivi” per fronteggiare crisi aziendali e temporanea mancanza di lavoro e in quelli “espansivi” (che ci interessano) per “creare spazio” all'assunzione di nuovi lavoratori. Tuttavia, la legge vigente (art. 41 D. Lgs. n. 148/2015) prevede compensazioni salariali ai lavoratori, i cui orari vengano ridotti solo con riguardo ai contratti di solidarietà “difensivi” e non a quelli “espansivi”. Senza un'adeguata compensazione salariale lo strumento da noi proposto non funzionerebbe, perché i lavoratori, pur desiderando certamente un giorno libero in più alla settimana e con tutta la simpatia per i disoccupati, non potrebbero permettersi una perdita salariale del 20% (1/5 dello stipendio).
Per converso, però, con una compensazione adeguata vicina al 100% o addirittura totale della perdita si avrebbe una vera e propria “corsa alla riduzione di orario”.
Ebbene, quella compensazione altamente adeguata può derivare proprio dalla finalizzazione al suo pagamento della risorsa finanziaria che sarebbe stata assorbita dal pagamento del reddito di cittadinanza, con la precisazione – che è meglio formulare fin d'ora – che l'attribuzione della risorsa economica ai lavoratori accettanti la riduzione di orario potrebbe avvenire, per motivi anzitutto di semplificazione burocratica, sotto forma di riduzione della trattenuta fiscale IRPEF in busta paga.
Si può, dunque delineare, in via di prima sintetica conclusione, una semplice ma originale formula: per non limitarsi ad alleviare la povertà del disoccupato/inoccupato, ma per garantirgli il lavoro e relativo reddito conviene “giocare di sponda” e destinare la stessa risorsa monetaria (€ 780,00 mensili) non a lui direttamente, bensì alla compensazione salariale di quattro neo-colleghi, i quali, riducendo la loro settimana lavorativa da cinque a quattro giorni, creano praticamente *ex novo*, ed in modo certo, il posto di lavoro che serve.
Con vantaggio di tutti: dello (ex) disoccupato, dei lavoratori riducenti l'orario e dello stesso datore di lavoro, come più sotto si avrà agio di dimostrare.
c) Avvertenze preliminari alla analisi della proposta.
Abbiamo ritenuto opportuno, per semplicità ed efficacia di comunicazione, anticipare il nucleo essenziale della nostra proposta, ma nei paragrafi seguenti sarà opportuno o addirittura necessario scendere nei dettagli e nelle esemplificazioni, per meglio spiegarla e dimostrarne la pratica fattibilità.
Bisogna, però, formulare, in via ancora introduttiva, almeno le seguenti avvertenze:
1\) quando si parla di destinare ai lavoratori che accettino di ridurre il loro orario settimanale, a titolo di compensazione, il beneficio monetario che sarebbe stato corrisposto al disoccupato come reddito di cittadinanza, ovviamente non si parla di rapporti o negozi giuridici tra soggetti individualmente considerati, ma solo di un confronto di contabilità generale tra diverse partite.
Si vuol dire che per lo Stato è lo stesso pagare al disoccupato Tizio € 780,00 mensili a titolo di reddito di cittadinanza, oppure praticare uno sconto fiscale di € 195,00 mensili a quattro lavoratori, Caio, Sempronio, Mevio e Saturnino, che, riducendo il loro orario settimanale, consentono l'assunzione di Tizio.
Per questo, comunque, non è affatto necessario che i cinque lavoratori si conoscano o siano entrati o entrino in contatto tra di loro.
2\) L'unico atto giuridico concretamente necessario, secondo la nostra proposta, è la stipula a livello di singola azienda di un contratto di “solidarietà espansiva” (art. 41 D. Lgs. n. 148/2015) ovvero di un accordo sindacale con il quale viene pattuito, ad esempio, che l'Impresa assumerà cinque nuovi lavoratori, visto che 20 lavoratori già in forza hanno accettato di ridurre la loro settimana lavorativa da cinque a quattro giorni.
3\) La proposta può applicarsi non solo alle imprese ma anche alle Pubbliche Amministrazioni, seppur alle condizioni e con le limitazioni che saranno illustrate.
4\) Precedenti progetti, ispirati al meccanismo dei contratti di solidarietà espansiva - messi a punto da chi redige questa nota prima dell'introduzione del reddito di cittadinanza, con l'utilizzo di diversi tipi di risorse economiche per ottenere una provvista da distribuire ai “riducenti orario” - restano in sé validi, ma ormai soprattutto come possibile strumento di completamento e arricchimento della provvista implicitamente creata con il decreto sul reddito di cittadinanza.
Se ne riparlerà, pertanto, nel paragrafo 6. di questa nota, onde formulare un progetto completo.
d) Dati e parametri quantitativi di maggior rilievo.
Si può, dunque, iniziare l'illustrazione della proposta rammentando alcuni dati e parametri quantitativi necessari per apprezzarne il significato e la portata.
Il primo dato di interesse è costituito dal numero degli occupati e dei disoccupati, visto che gli occupati costituiscono, per così dire, “la provvista” per l'operazione di riassorbimento dei disoccupati tramite la riduzione dell'orario di lavoro settimanale del personale già in forza.
I disoccupati “ufficiali”, cioè i soggetti che si registrano dichiarando la loro disponibilità all'assunzione al lavoro presso i competenti uffici amministrativi, ammontano a circa 2,5 milioni cui va, però, aggiunto un numero difficilmente precisabile di “inattivi”, ossia di persone che non cercano o non cercano più lavoro (essenzialmente per sfiducia), ma lo accetterebbero se ne avessero l'occasione, ed il loro numero può essere stimato, almeno come ipotesi di lavoro, in 1,5 milioni di soggetti e forse di più.
Molti di questi quattro milioni di soggetti, di cui il 30-33% costituito da giovani, versano, ovviamente, in condizioni di povertà e sarebbero, dunque, in grado di candidarsi alla percezione del reddito di cittadinanza.
Passando all'altro fulcro del problema, ossia al numero degli occupati, essi sono calcolati ufficialmente in circa 23 milioni, ma di essi 5 milioni sono lavoratori autonomi, e dei 18 milioni di lavoratori dipendenti solo 15 milioni sono “permanenti”, ossia assunti a tempo indeterminato e quindi immediatamente utilizzabili per i nostri scopi.
Pur con tutte queste limitazioni ed altre diverse, i parametri quantitativi restano confortanti, perché anche nell'ipotesi che la “provvista” degli occupati utilizzabili per la riduzione d'orario scenda, per varie ragioni, all'atto pratico, da 15 a 8-10 milioni di lavoratori e la settimana lavorativa possa (sempre volontariamente) essere ridotta da cinque a quattro giorni, i nuovi posti di lavoro risultanti ammonterebbero a non meno di 2-2,5 milioni, più che sufficienti per riassorbire tutta la disoccupazione giovanile, che costituisce l'obiettivo assolutamente privilegiato dell'operazione proposta.
Altro profilo quantitativo di centrale importanza riguarda la perdita salariale da compensare ai lavoratori accettanti la più volte ricordata riduzione dell'orario settimanale.
Detta perdita sarebbe, in teoria, di 1/5 del salario sia lordo che netto, visto che l'orario viene ridotto da 5 a 4 giornate, e possiamo assumere l'ipotesi di doverla applicare ad un salario medio-minimo, che stando ai principali CCNL, è di circa € 1.300,00 mensili netti, ovvero circa € 1.600,00 lordi, importi i quali, dedotto quel 1/5, si ridurrebbero quindi ad € 1.040,00 netti ed € 1.280,00 lordi.
Si parla, comprensibilmente, di importi previsti per le fasce centrali, operaie ed impiegatizie, degli inquadramenti in qualifiche che contemplano, però, anche qualifiche più basse e più alte con relativi importi che, tuttavia, ben raramente superano i € 2.000,00 mensili, ed interessano solo marginalmente, per le ragioni che si diranno, il nostro problema.
Assumendo, quindi, un importo medio di riferimento di € 1.300,00 netti, la perdita di potere di acquisto da ripianare o da compensare dopo la riduzione di orario sarebbe di € 260,00 netti mensili (1.300/5=260).
La questione diventa, allora, di appurare in qual misura una tale perdita possa e debba essere ripianata o compensata, perché il lavoratore si proponga per la riduzionedi orario o, comunque, la accetti e poi, ovviamente, con quali risorse e modalità realizzarla.
Anche a seguito dei risultati di uno specifico studio demoscopico (realizzato in Emilia Romagna), si può affermare che con una compensazione al 100% l'adesione sarebbe totale, ma che anche con un indennizzo pari ai 2/3 della perdita salariale la netta maggioranza degli occupati interpellati accetterebbe di “passare” alle quattro giornate lavorative settimanali: va precisato che i 2/3 della perdita teorica del 20% del salario significano una riduzione del salario complessivo del 7% a fronte, però, di un giorno libero in più alla settimana.
Vedremo, allora, più sotto in dettaglio come la misura proposta di destinare ai quattro “riducenti orario” l'importo del reddito di cittadinanza (€ 780,00 mensili) che sarebbe andato al disoccupato/inoccupato realizzerebbe già di per sé, una compensazione del 75% della perdita ossia, a fronte della conquista di un giorno libero, una riduzione salariale complessiva solo del 5% dell'intero salario. Con la precisazione, però, che restino possibili e vengano proposte (cfr. paragrafo § 6) misure aggiuntive che potrebbero azzerare quella perdita.
e) L'utilizzo “indiretto” del reddito di cittadinanza ai fini dell'incremento occupazionale.
Conviene, ora, entrare nel merito dell'operazione, in sé semplice ma richiedente un impegno assiduo delle forze sindacali e sociali, oltre che delle istituzioni: lo strumento operativo è costituito - come detto - dal contratto di solidarietà espansiva di cui all'art. 41 D. Lgs. n. 148/2015, ossia da un contratto collettivo aziendale nel quale il datore di lavoro, da un lato, e le OOSS dall'altro pattuiscono un certo numero di nuove assunzioni in determinate qualifiche (ad es. 10 assunzioni) a fronte di un numero quadruplo di riduzioni di orario da 5 a 4 giornate settimanali (quindi, nell'esempio, 40 riduzioni) volontariamente accettate da altrettanti lavoratori già in forza.
La preparazione, azienda per azienda, dei contratti di solidarietà sarebbe, dunque, per le organizzazioni sindacali un impegno organizzativo e operativo notevole, ma anche di grande soddisfazione, trattandosi di realizzare, in un solo atto, due obiettivi sindacalmente importantissimi, quali nuove assunzioni, da un lato, ed un sostanziale aumento del tempo libero per i riducenti orario dall'altro. Si tratterebbe, allora:
A\) di censire, in primo luogo, i lavoratori già in forza all'azienda disponibili alla riduzione di una giornata della loro settimana lavorativa, a fronte della compensazione della perdita salariale, contestualmente risultante da fonti normative e dallo stesso contratto di solidarietà.
B\) di censire, per converso ed in secondo luogo, in numero pari a ¼ di quello dei precedenti soggetti, i possibili neo assunti i quali appunto devono essere soggetti disoccupati/inoccupati già titolari o sicuri destinatari di un reddito di cittadinanza.
É poi altamente raccomandabile, per intuibili ragioni di ordine sindacale, economico, sociale ed umano che si tratti di giovani assumibili con contratto di apprendistato, così da fornire anche all'impresa una quanto mai vantaggiosa prospettiva di formazione mirata e di ringiovanimento degli organici.
Tuttavia non si tratta di una condizione esclusiva - saranno invero le parti sociali del contratto di solidarietà a decidere in concreto della tipologia delle nuove assunzioni - neanche sotto il profilo finanziario, dal momento che l'importantissima “decontribuzione” previdenziale dei neo-assunti è prevista sia dalle leggi sull'apprendistato dei giovani, sia comunque dalla normativa sui contratti di solidarietà espansiva per i neo assunti di qualsiasi età che trovino lavoro mediante tale strumento.
C\) Di prevedere il coordinamento temporale, in termini di immediatezza o, comunque, di certezza tra le due operazioni di riduzione di orario e di assunzione dei disoccupati/inoccupati già convenientemente selezionati. D) Di prevedere anche eventuali misure aggiuntive (oltre alle fondamentali detrazioni di imposta di cui subito sotto si dirà) per portare possibilmente al 100% la compensazione della perdita retributiva teoricamente subita dai lavoratori riducenti orario: pensiamo, in particolare, a benefici di “welfare” aziendale e ad un contributo regionale di importo finanziario moderato ma di grande valore politico, perché le Regioni dovrebbero essere i soggetti istituzionali promotori, garanti ed anche firmatari dei suddetti contratti di solidarietà espansiva.
Va da sé che al momento della stipula dei contratti di solidarietà dovrebbe essere già vigente la previsione normativa contemplata dalla nostra proposta e che ne costituisce “il motore”, consentendo quel “gioco di sponda” tra reddito di cittadinanza e incentivo occupazionale che, della proposta, è, a sua volta, l'anima.
La previsione, cioè, in sé semplicissima, di una detrazione di imposta, da aggiungere a quelle già elencate all'art. 13 ss. TUIR (Testo Unico Imposta sui Redditi) di € 200,00 mensili (arrotondando da € 780,00 /4=€ 195,00) per quei lavoratori che abbiano accettato la riduzione dell'orario settimanale in ragione e nell'ambito di un contratto di solidarietà espansiva.
Non vi è per il lavoratore alcuna pratica burocratica da espletare, perché sarà il datore di lavoro, avvertendo ovviamente l'Agenzia delle Entrate, a ridimensionare di € 200,00 la trattenuta fiscale mensile in busta-paga.
In questo modo, il lavoratore “recupera” € 200,00 (arrotondamento di € 780,00/4= € 195,00) sui 260,00 che ha perso (sempre su un salario netto di € 1.300,00 mensili) perché il netto corrisposto in busta-paga risalirebbe da € 1.040,00 ad € 1.240,00, ossia solo € 60,00 in meno rispetto al salario (€ 1.300,00) precedente la riduzione di orario, con una perdita salariale complessiva soltanto del 4,6%.
È assolutamente probabile e ragionevole che la grande maggioranza dei lavoratori ben volentieri pagherebbe € 60,00 mensili per avere un giorno libero in più alla settimana, ma anche questo piccolo sacrificio potrebbe essere evitato al “riducente orario” grazie alle “misure aggiuntive” di incentivazione inseribili nel contratto aziendale di solidarietà espansiva di cui tra breve diremo.
Ma il cuore dell'operazione e della proposta consiste nella misura principale ora descritta, la quale evidenzia come con la introduzione del reddito di cittadinanza e dei relativi stanziamenti di bilancio sia virtualmente già pagata la diversa, ma gigantesca e salvifica, operazione di reperire, da subito, l'occupazione per centinaia di migliaia di giovani.
Quei giovani, infatti, non riceverebbero il reddito di cittadinanza cui hanno diritto, bensì qualcosa di meglio, ossia un posto di lavoro con relativo stipendio, poiché con la risorsa finanziaria destinata all'erogazione del reddito verrebbe creato *ex novo* lo stesso posto di lavoro, finanziando la volontaria riduzione d'orario di quattro dipendenti già in forza all'impresa.
Non era questo il vantaggioso risultato cui pensavano coloro che hanno voluto l'introduzione nel nostro ordinamento del reddito di cittadinanza, ma è ben noto che, storicamente, molte importanti scoperte ed invenzioni sono avvenute “per caso”, a cominciare – potremmo dire - nell'industria farmaceutica…. dalla penicillina e dal Viagra.
f) Misure aggiuntive di compensazione economica della riduzione di orario.
Quanto ora affermato non toglie che per garantire un pieno successo dell'operazione sia opportuno cercare di eliminare anche quel modesto differenziale di € 60,00 mensili calcolato sullo stipendio medio-minimo di riferimento di € 1.300,00 mensili e di estendere l'operazione complessiva anche ai percettori di uno stipendio netto superiore, ad esempio, fino a € 2.000,00 mensili netti. Sono questi lavoratori di alta qualifica che potrebbero essere interessati alla riduzione di orario la quale, però, sarebbe per loro alquanto costosa con conseguente effetto disincentivante: su uno stipendio netto di € 2.000,00 la riduzione stipendiale mensile sarebbe, infatti, di € 400,00 compensata solo per metà (€ 200,00) dalla ricordata detrazione di imposta.
Ovviamente, sopra gli € 2.000,00 di stipendio netto le cose peggiorerebbero ancora ma, a nostro avviso, per questi livelli superiori (impiegati di alto concetto e quadri) l'intera problematica non si porrebbe in concreto, trattandosi, per lo più, di soggetti “in carriera”, non interessati a maggior tempo libero.
Possono, allora, tornare utili per coinvolgere nella riduzione di orario settimanale anche i lavoratori con stipendio netto fino ad € 2.000,00 mensili, alcune misure che chiameremo ora “aggiuntive”, ma che prima dell'introduzione del reddito di cittadinanza costituivano l'asse portante di una proposta sullo stesso oggetto della riduzione di orario con effetti occupazionali nel quadro di contratti aziendali di solidarietà espansiva.
Entrando nel merito, va anzitutto sottolineato, con riguardo alle fonti di finanziamento di tali “misure aggiuntive”, che il datore di lavoro, nella vicenda del contratto aziendale di solidarietà espansiva, come sopra considerato, realizza comunque un notevole vantaggio economico-finanziario per diminuzione del costo del lavoro.
Infatti, la quantità delle ore complessivamente lavorate non cambierebbe, perché la riduzione di orario dei lavoratori che la accettano sarebbe perfettamente riequilibrata dalle ore lavorate dei nuovi assunti, ma questi ultimi all'impresa costerebbero di meno, perché sui loro salari non andrebbero pagati contributi previdenziali (ai sensi dell'art. 41 D. Lgs. n. 148/2015 e/o ai sensi della normativa sull'apprendistato), ed in più essi subirebbero la temporanea decurtazione retributiva prevista dal CCNL sotto la denominazione di “salario di ingresso”. Il vantaggio economico del datore di lavoro è così in realtà notevole, trattandosi di € 300,00/400,00 mensili per ogni nuovo lavoratore assunto e sarebbe, allora, equo destinare almeno la metà di tale risorsa ad aumentare la compensazione per i “riducenti orario”: si tratterebbe, in pratica, di un beneficio aggiuntivo di circa € 50,00 pro capite (€ 200,00/4=€ 50,00) che, aggiunti agli € 200,00 di detrazione di imposta, colmerebbero totalmente nella sostanza la perdita stipendiale da riduzione di orario per i percettori di un salario netto di € 1.300,00.
Nel concreto, questo beneficio aggiuntivo potrebbe convenientemente assumere la forma di una voce di welfare aziendale da aggiungersi, normativamente, a quelle già previste ed elencate dall'art. 51 secondo comma, lettera i) del TUIR.
Queste “voci” costituiscono per i lavoratori beni o servizi che dovrebbero acquistare e pagare nel mercato (es.: asili per i figli, abbonamenti a mezzi pubblici, assistenza a parenti anziani ecc..) e che, invece, ricevono gratuitamente dall'Azienda, senza, inoltre, che costituiscano reddito imponibile a fini fiscali.
Il datore di lavoro, invece, può dedurle fiscalmente come costo di lavoro e proprio questa, come si comprende, è la potente molla del “welfare aziendale”: che ciò che per il lavoratore non costituisce reddito imponibile è, invece, per il datore di lavoro, costo deducibile, con evidente vantaggio di entrambi.
La misura incentivante aggiuntiva di “welfare aziendale” potrebbe così, ad esempio, assumere la forma di “voucher” ovvero “buoni acquisto” (ora consentiti dall'art. 51, comma 3 bis TUIR) presso catene convenzionate della Grande Distribuzione con valore, cadauno, di € 50,00 per lavoratori percettori di salario netto fino ad € 1.300,00 e con due “tagli” superiori di € 100,00 ed € 150,00 per stipendi netti rispettivamente fino ad € 1.800,00 e fino ad € 2.000,00, allo scopo di coinvolgere, se lo vogliono, nella riduzione di orario anche lavoratori di più alta qualifica.
Va notato che per i datori di lavoro tali “voucher” o “buoni acquisto” avrebbero un costo di parecchio inferiore rispetto al loro valore facciale, utilizzato e goduto dal lavoratore nell'acquisto di beni e servizi, perché ovviamente i datori e le loro associazioni potrebbero ottenere dei forti sconti dai fornitori, acquistandone ingenti quantità da distribuire poi ai lavoratori “riducenti orario”.
Vale, comunque, la pena di spendere ancora qualche parola sull'argomento, perché, come già detto, sarebbe possibile costruire un progetto o formula di riassorbimento della disoccupazione tramite contratti di solidarietà espansiva anche con l'utilizzo soltanto del “welfare aziendale” e dei risparmi dei costi contributivi e retributivi dei nuovi assunti: ed un progetto di questo tipo è stato anche predisposto prima dell'entrata in vigore del reddito di cittadinanza. Resta pertanto pienamente utile quando si trattasse di assumere disoccupati non destinatari, per vari motivi, del reddito di cittadinanza.
In tale situazione occorrerebbe “surdimensionare” l'utilizzo dei risparmi dei costi sui neoassunti e la corresponsione di parte della retribuzione (fino ad 1/3 della stessa), mediante “voucher” di welfare aziendale, avendo cura che l'importo dei voucher sia superiore a quello matematico della perdita retributiva da riduzione di orario.
Per riprendere il nostro esempio di stipendio netto di € 1.300,00, ridotto teoricamente ad € 1.040,00 per la riduzione di orario settimanale, possiamo immaginare che il contratto di solidarietà aziendale possa ridurre ancora questo netto monetario ad € 800,00, ma attribuendo al lavoratore anche un “voucher” di welfare aziendale del valore di € 450,00, in modo che egli recuperi un potere di acquisto pari ad € 1.250,00.
Quei voucher di € 450,00 non costituirebbero, però, un vero sacrificio per il datore di lavoro, perché di quegli € 450,00, una quota di € 240,00 era comunque dovuta (differenza tra € 1.040,00 ad € 800,00), una quota di € 100,00 corrisponde al risparmio di costo sul nuovo assunto ripartito sui quattro riducenti orario, mentre una quota di € 100,00 corrisponde al presumibile sconto che il datore di lavoro (o associazione sindacale) otterrebbe acquistando i “voucher” all'ingrosso dai fornitori, con l'aggiunta finale di € 10,00 di contributo da parte dell'Ente Regione.
Per il lavoratore “riducente orario” la compensazione del suo potere di acquisto sarebbe così quasi completa, mancando solo € 50,00 mensili, corrispondenti al 4% dell'intero salario, “scotto” del tutto sopportabile per un giorno libero in più alla settimana.
Tutto è molto più semplice, ovviamente, quando, come nella fortunata situazione attuale, le leve finanziarie per pagare o compensare la riduzione di orario sono due e non una: non soltanto, cioè, il “welfare aziendale”, ma anche, ed anzitutto, l'utilizzo “indiretto” o “di sponda”, del reddito di cittadinanza, che consente, tramite detrazione d'imposta di € 200,00 al lavoratore “riducente orario” del nostro esempio, di abbattere la sua perdita retributiva teorica da € 260,00 a solo € 60,00, con amplissima possibilità, poi, di esaminare anche questo residuo tramite una modesta misura di “welfare aziendale”.
Per le suddette ragioni si è voluto prevedere e regolamentare nell'articolato del progetto di legge ambedue le “leve” o strumenti, che prendono la forma delle due modifiche o integrazioni al TUIR (all'art.13 e all'art.51 secondo comma): perché la leva del “welfare aziendale”, che è marginale ed una sorta di “Cenerentola”, quando opera l'altra dell'utilizzo indiretto del reddito di cittadinanza, possa all'occorrenza, quando ciò non avvenga, funzionare anche da sola, seppur con modalità più impegnative e severe.
Occorre, infine, completare il quadro delle risorse finanziarie utilizzabili per la realizzazione delle proposte ricomprendendovi un contributo regionale alle imprese firmatarie di contratti di solidarietà espansiva.
Il suo importo finanziario potrebbe essere modesto, poniamo di € 10,00 mensili rimborsate al datore di lavoro per ogni riducente orario con stipendio netto di € 1.300,00, e di € 15,00 o € 20,00 per fasce superiori, lasciando, magari, al contratto aziendale di solidarietà espansiva di prevederne l'eventuale riversamento ai lavoratori.
Ciò costituirebbe per la Regione una sorta di “titolo legittimante” per sedersi ai tavoli dei contratti aziendali di solidarietà espansiva.
g) Una proposta vantaggiosa per tutti.
Ci si può chiedere, a questo punto, quali sarebbero i vantaggi che deriverebbero dalla descritta proposta alle parti protagoniste o comunque coinvolte nella sua realizzazione mediante contratti aziendali di solidarietà espansiva.
Vediamo le singole categorie:
A\) Disoccupati/inoccupati neo-assunti.
Sono, ovviamente, i principali beneficiari, perché finalmente otterrebbero in termini di certezza un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, al posto del reddito di cittadinanza cui avrebbero altrimenti diritto.
È importantissimo e fondamentale ribadire che, a stregua di questa proposta, non ci si limita a “sperare” che il datore di lavoro, attratto dall'incentivo economico, voglia dotarsi di un posto di lavoro “in più”, dal momento che invece riduzione di orario e nuove assunzioni costituiscono una sorta di sistema “a vasi comunicanti” disciplinato come evento certo e in termini di obbligo giuridico dal contratto di solidarietà, una volta sottoscritto.
Parliamo qui di assunzioni stabili a tempo indeterminato e questa affermazione non è contraddetta dall'indicazione del preferibile utilizzo, in sede assuntiva, del contratto di apprendistato che, come si sa, resta risolubile ad nutum alla fine dei 2-3 anni di sua durata se non interviene la trasformazione a tempo indeterminato. L'esperienza insegna infatti che quando vi è un “piano di apprendistato” seguito dalle OOSS che lo abbiano versato e sottoscritto in un contratto aziendale, le disdette e mancate trasformazioni sono rarissime, anche in considerazione dei costi di formazione già sopportati dall'impresa.
L'assunzione di giovani disoccupati con contratto di apprendistato sarebbe, naturalmente, vista con molto favore dagli imprenditori che, in sostanza, potrebbero ringiovanire gli organici, realizzando i piani formativi di cui avvertono la necessità.
B\) Lavoratori già occupati che riducono l'orario lavorativo da cinque a quattro giornate settimanali.
È la categoria “nuova” introdotta dalla proposta e che costituisce il “motore” o la “provvista” per l'effetto di incremento occupazionale e va subito chiarito che da detta proposta i lavoratori “riducenti orario” ricevono un vantaggio solo di poco inferiore a quello dei disoccupati neo-assunti.
Per la gran parte delle persone che lavorano – ad iniziare, ovviamente, dalle donne lavoratrici – la prospettiva di un giorno libero in più a settimana è tale, letteralmente, “da cambiare la vita”, consentendo al lavoratore ed alla lavoratrice di accedere ad una quantità quasi sconfinata di attività culturali, ludiche, di cura familiare, di volontariato ecc. ecc.
E ciò a fronte di una penalizzazione salariale del 5% soltanto o, meglio ancora, probabilmente senza alcuna penalizzazione.
Al vantaggio proprio dell'acquisto di maggior tempo libero non potrebbe non sommarsi, poi, l'intima soddisfazione di aver così contribuito all'eliminazione della piaga sociale dell'inoccupazione, soprattutto giovanile.
Conviene, però, soffermarsi ancora un poco sugli aspetti tecnico-normativi della proposta, che consentono a questi lavoratori una riduzione economicamente indolore dell'orario di lavoro settimanale.
Tutto quello che occorre, dal punto di vista delle modifiche normative, sono due laconiche, ma cruciali innovazioni ed “addizioni” a due norme del TUIR (Testo Unico Imposte sui Redditi) ed esattamente all'art. 13, in tema di detrazioni di imposta per i redditi di lavoro, e all'art. 51 secondo comma che elenca le prestazioni di “welfare aziendale”, ossia di beni e servizi erogati al lavoratore, ma che non costituiscono per lui reddito fiscalmente imponibile.
C\) Datori di lavoro.
Questa proposta si fa carico, naturalmente, dell'atteggiamento normalmente riottoso ed “allergico” dei datori di lavoro verso prospettive di aumento dell'occupazione e/o della riduzione dell'orario di lavoro nelle (proprie) aziende e lo fa escludendo, anzitutto, che possano essere fondate eventuali doglianze di aumento del costo del lavoro.
Infatti, secondo la proposta, il monte-ore complessivo lavorato e retribuito non varia, essendo il minor orario settimanale dei vecchi assunti che passano alle quattro giornate lavorative settimanali, perfettamente riequilibrato dal lavoro dei nuovi assunti.
Anzi, il costo del lavoro diminuirebbe perché le ore lavorate dai nuovi assunti sarebbero esenti da contribuzione previdenziale (per 3 anni) e temporaneamente retribuite con l'istituto del “salario di ingresso”, di qualche punto percentuale inferiore agli “standard” contrattuali collettivi.
Soprattutto, però, i datori di lavoro avrebbero l'occasione più unica che rara di procedere, in modo sostanzialmente gratuito, alla realizzazione di una strategia di ringiovanimento degli organici e di formazione professionale mirata dei nuovi assunti mediante piani di apprendistato. Certamente questo comporta l'instaurazione di un rapporto duraturo con le Organizzazioni Sindacali, al di là della sola messa a punto del contratto di solidarietà espansiva, ma questo è, secondo l'esperienza, un vantaggio, stante la costante buona riuscita, sia in Italia che all'estero, di piani formativi concordati e controllati d'intesa con le Organizzazioni Sindacali.
Quanto alle eventuali misure aggiuntive di “welfare aziendale”, sarebbero in parte finanziate dai risparmi sul costo del lavoro dei neo-assunti e sarebbe questa l'occasione per tanti imprenditori di avvicinarsi ad una modalità di gestione “fidelizzante” dei rapporti con il personale, ormai adottata con convinzione da molte moderne imprese di medie-grandi dimensioni.